Con Tokyo Style di Tsuzuki Kyōichi tornano le interruzioni di Laura Imai Messina che, questa settimana, ci porta alla scoperta delle stanze dei tokyoti, cellette d’ape che accolgono curiose collezioni private.
Claude Lévi-Strauss, che del Giappone era un grande estimatore, promosse il concetto di bricolage come diversa combinazione di vecchi materiali da cui si sprigiona invece il nuovo. È una modalità attraverso la quale dar luogo all’inedito pur basandosi sul vecchio. Una sorta di abito con le cuciture a vista che si manifesta in tutta la sua originalità.
Il collage, il bricolage di cui parlava Claude Lévi-Strauss è complesso proprio perché richiede l’armonizzazione tra le parti e le scatole di un artista come Joseph Cornell, che ci appaiono oggi complete e autosufficienti dietro le vetrate dei musei, una volta non erano che un ammasso sparso e disordinato di cose a loro volta complete nella loro singolarità. Sotto le mani laboriose dell’artista, tutto è stato ritagliato, spezzato, frammentato, aggiunto, limato, come a creare un puzzle senza il minimo difetto.
È qualcosa che, a sua volta ricorda anche i minuscoli appartamenti tokyoti i cui scatti sono stati raccolti senza soluzione di continuità in Tokyo Style, catalogo fotografico di Tsuzuki Kyōichi, tradotto in varie lingue tra cui anche l’italiano. Vi si percepisce l’inventiva, nelle sue forme più alte, che spesso scaturisce dalla limitazione proprio come, diceva Gesualdo Bufalino, accade alla poesia: costretta nella rete della forma, essa si libera e dona il meglio di sé.
Dal poco spazio che si ha a disposizione, nasce una sorta di visione al microscopio, un gioco di lenti che espande a dismisura quanto serve e anche quanto si ama. Tutto nel perimetro castigato di una stanza, di un monolocale da formica.
È la vita che si sviluppa ricca e opulenta anche in cellette d’ape, uniche dimensioni permesse ai trentasei milioni circa di giapponesi che vivono a Tokyo e nelle zone che vi orbitano intorno. Tutti accanto, tutti loro malgrado visibili gli uni agli altri, i tokyoti ricercano nella casa un luogo dove poggiare il corpo e rappresentarsi ai propri occhi, innanzitutto.
Lontanissimo appare il minimalismo delle antiche dimore giapponesi, dove lo spazio giustificava il nulla, il MU, che tutto accoglie, soprattutto in termini di tempo e di pensieri. La società odierna si carica di cose e si sveste di metri quadrati il cui prezzo, dopo lo scoppio della bolla negli anni 80-90, è schizzato alle stelle.
Lo stile è la parola d’ordine della raccolta ed è indubbio come ogni pagina descriva di chi abita quei luoghi le passioni, i gusti talvolta kitsch, estremi, che fanno sì che anche all’interno di microscopiche planimetrie si consumi una collezione. È tutto un divertissement di equilibri tra la presenza e l’assenza, tra l’utilità e il superfluo, in un sistema raffinatissimo (sebbene spesso inconsapevole) di addizioni e sottrazioni.
Sfogliando questo catalogo si capiscono molte cose. Due fra tutte: ecco perché i giapponesi non amano invitare gli ospiti a casa (la casa è il luogo del relax, lo spazio limitato rende il luogo accogliente per sé – cianfrusaglie comprese – ma non per altri) e perché lo spazio comune è tanto curato (il pubblico è il privato, il privato, privato solamente).