Come ho svuotato la casa dei miei genitori – Lydia Flem

Come ho svuotato la casa dei miei genitori – Lydia Flem

Come ho svuotato la casa dei miei genitori di Lydia Flem è l’Interruzione che ci regala questa settimana Laura Imai Messina che stavolta si domanda: che saranno le cose dopo di noi?

Come ho svuotato la casa dei miei genitori, Lydia Flem Archinto 1
Autore: Lydia Flem
Casa editrice: Archinto
Traduzione di Edda Melon
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È concetto di grande freschezza il danshari「断捨離」, tre kanji affiancati che frazionati spiegano cos’è: kotowaru 断る che significa “rifiutare”, suteru 捨てる cioè “buttare, gettar via”, hanareru 離れる che è “allontanarsi, prendere distanze”.

Rielaborandolo in termini contemporanei, Marie Kondō ne ha fatto uno dei libri più famosi a livello planetario (Il magico potere del riordino, Vallardi, 2014). La filosofia del poco, di quanto serve, del minimalismo ha preso piede. Alla gente adesso, pare necessario insegnare ad acquistare e insieme a buttare, liberandola dai legacci della merce.

L’Oriente tradizionale, lo zen della tradizione buddhista insegna all’Occidente sprecone e allo stesso Oriente corrotto nell’accumulazione, cosa è che vale davvero, cosa serve tenere e cosa – tutto quello che necessario non è – lasciare andare.

Ci si crede eterni, l’uomo vive così. Si ride del bimbo che non conosce la morte, che si sente perennemente al di là della fine, concentrato com’è nel momento presente. Eppure anche l’adulto, per stare al mondo, deve illudersi d’esserci anche domani, e domani l’altro, e l’anno dopo ancora.

Ma le cose? Che saranno le cose dopo di noi?

In Giappone, e sempre più anche altrove, le case vengono svuotate da società che si occupano dello smaltimento degli oggetti dei defunti. Gli anziani prendono accordi prima di morire, o per evitare che siano i parenti a doversi sobbarcare l’onere dell’operazione, oppure perché una famiglia alle spalle non c’è. Si è sempre soli nella morte, è una grande lezione che la filosofia dall’alba dei tempi ci impartisce.

E le cose che a lungo ci hanno accompagnato muoiono proprio in virtù del loro speciale legame con noi. Noi scompariamo, loro entrano nel regno dell’inutile, del superfluo. Per chi ci ha amati è penoso buttarli, perché in essi riconoscono l’ombra della nostra antica presenza, accendono come interruttori ricordi.

Lessi questo libro in francese per la tesi di dottorato, che proprio sul concetto di materialità era concentrata, e trovai non solo i contenuti, ma la lingua bellissima, ricca di poetiche riflessioni: Come ho svuotato la casa dei miei genitori, Lydia Flem (Archinto, 2016, pp. 119).

La nudità del titolo è specchio di quel problema linguistico che si pone la protagonista nel gestire l’operazione dello svuotare. Il verbo stesso “svuotare” sembra addolorarla tanto che, come suggeriva Heidegger, viene da pensare che dentro la parola sia celata il sentire, che nella lingua risieda la risposta a una domanda che ci siamo posta. Questa parola, e nessun’altra. Un perché lo si trova sempre.

Ecco che il vuoto fisico che si deve scavare in una casa per poterla riutilizzare o mettere in vendita non è altro che una mancanza emotiva causata dalla morte della madre e del padre.

 Per la scrittrice l’archiviazione e la sistematizzazione dello spazio all’indomani del lutto parentale diventano motivo d’una ricerca che valica il presente e si butta a capofitto nel passato, nelle origini della propria nascita, nella storia dei membri della famiglia e nella Storia, che alcuni di loro ha travolto dolorosamente. Il discorso memoriale si lega con un inevitabile carico emotivo alla tematica ebraica del ricordo, della persecuzione nazista e del recupero – o della consapevole scelta di rimozione – di memorie dolorose. La scrittrice recupera del padre il ricordo straziante della madre russa, deportata dall’Olanda e assassinata ad Auschwitz nel 1942 dai nazisti; della famiglia della madre di cui molti membri furono anche loro uccisi nelle medesime tragiche circostanze

Lo svuotare i cassetti, i mobili, le stanze della casa dei genitori si trasforma in un’operazione di memoria, in un discorso strettamente legato all’eredità, alla riflessione su cosa essa sia. Nel cercare tracce della vita dei propri genitori, le cose iniziano a parlare.

Che ognuno si guardi intorno, costringa a una #interruzione la mano che si muove veloce tra le cose di una casa, deponga lo sguardo su ognuna di esse, dia loro un nome, e un senso.

E le ascolti parlare. Vale la pena farlo talvolta, perché quel che dicono a noi, quelle stesse cose, non lo diranno mai a nessun altro in nostra assenza.

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