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Cento Haiku – A cura di Irene Iarocci

Cento haiku a cura di Irene Iarocci e con presentazione di Andrea Zanzotto è l’interruzione che ci propone questa settimana Laura Imai Messina ricordandoci che il poeta schiude la meraviglia.

Cento Haiku - A cura di Irene Iarocci - Guanda
Autore: AA. VV.
A cura di Irene Iarocci
Casa editrice: Guanda
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Ancora haiku, questa volta squisitamente tradizionali, attestati nella tradizione, affermati nei motivi, nei kigo. E un’interruzione che vuole toccare lo spiegare, l’insegnare, che è azione preziosissima se portata a compimento con rispetto e senso del donare, e del dovere.

In questo bel libro edito per la prima volta da Longanesi nel 1982, poi da Guanda nel 1987, e rinnovato nella copertina che appare ora come un vivace guizzare di pesci rossi e neri, in un banco che s’aggira intorno alle informazioni del libro (portate tutte in su), gli haiku sono d’un numero tondo: 100, cento, ognuno di essi selezionato, tradotto e spiegato da Irene Iarocci.

Ogni pagina ha un assetto preciso e regolare come il rintocco di un orologio: l’haiku originale in italics trascritto in rōmaji, il nome dall’autore in maiuscolo al centro, la traduzione in italiano lievemente discosta dal bordo o allineata al centro, il blocco di spiegazione tra le due e le dieci righe che scioglie il senso raggrumato in un punto o in altro, e infine il kigo (termine, quest’ultimo, che in giapponese figura così 「季語」 nell’accostamento del kanji di stagione a quello di parola, in quanto esso indica convenzionalmente i riferimenti alla stagione di cui si racconta nell’haiku in questione e in cui possono convogliare nomi di piante, suoni della natura, oggetti legati a precise consuetudini, animali…

Hakoniwa ni
Byōyō ochite
Ōinari

Tomiyasu Fūsei

Minuscolo, un fazzoletto di giardino:
malata, vi cade,
immensa,
una foglia

È noto l’amore dei giapponesi per i giardini. Pur di possederne uno, si accontentano che sia così piccolo da entrare in una scatola (tale il significato letterale di hakoniwa). Vi risalta, perciò, anche una foglia, la cui malattia o ingiallimento è un riferimento convenzionale alla fine dell’estate. Laddove l’originale gioca sui suoni «o» e «y» allitterati, abbiamo, in italiano, una trasposizione parallela della «m».

Kigo: byōyō (foglia ingiallita)

E proprio gli ultimi due punti sono il valore aggiunto del libro.

Si ha l’idea, parzialmente inesatta, che gli haiku siano una forma semplice, elementare. Parzialmente perché pur effettivamente presentandosi graficamente nella loro brevità, sono un concentrato di senso. Vivono della sottrazione, della parola che Erri De Luca definirebbe “sbucciata” dall’autore, perché chi legge possa godere solo del frutto, senza avvertire fatica.

Gli haiku paiono illustrazioni minimaliste di fiori, di cui si tracci solo il contorno a matita, una linea per il fusto, un tondo per il cuscino di stami e pistilli, quattro archi chiusi dal perimetro del cerchio che riassumono sepali e petali. E tuttavia vanno intesi come ortensie opulente, superbe rose traboccanti di colori accesi come il carminio, sontuosi crisantemi magenta: tutti, indistintamente, originati da un minuscolo seme. Suggerire con garbo questo sfarzoso dietro le quinte è il senso dell’insegnare con cura.

Per educare ci vuole modestia e insieme certezza, di quella convinzione dovuta a una coscienza pulita, di chi sa che ha studiato abbastanza prima d’ergersi dritto ad affrontare una classe, che per adagiarsi dietro una cattedra e dire qualsiasi cosa, serve studiare il doppio, il triplo di quanto non si farebbe dall’altra parte del filo, dove lo sguardo di tutti si appunta su sé, voltato nella direzione opposta alla sua.

La cultura giapponese è tanto lontana dalla nostra che spiegare ha sempre un vantaggio. La prosa minimalista di certi romanzi viene spesso persino arricchita dal traduttore che percependone la bellezza, si trova a che fare con termini che ricorrono con una frequenza che risulterebbe svantaggiosa in italiano. La mediazione del senso, l’educazione a una sensibilità molto diversa, è indispensabile. Proprio per via del minimalismo verso cui spesso vira l’arte giapponese, parrebbe indietro di sale, banale nella resa. E allora ecco una stretta gentile che prende il lettore per mano, lo accompagna alla scoperta della parola, della brezza estiva, del frinire assordante della cicala, del modo di suggerire con struggente mestizia la morte di un figlio, il sogno ricco di simbologia del primo dell’anno, pioggia di primavera, sole d’inverno; in un “Piccolo glossario di termini giapponesi” illustra in giusta lunghezza cosa sia kana , cosa kireiji («il termine che taglia») o washi; nell’ “Indice degli autori” ne delinea brevissimi i caratteri che hanno permesso loro di varcare la storia; nella “Presentazione” generosa non dà per scontato nulla che il lettore non sappia.

 E infine ultima, benché giunga per prima, la “Presentazione” di Andrea Zanzotto, poeta italiano di finissima sensibilità, che a lungo ha frequentato la lingua spartana eppure ricchissima dell’haiku e che questa forma l’ha declinata da vero maestro della parola, dichiarando in altra sede d’essersi salvato da una grave depressione proprio grazie alla composizione degli haiku che, lui definisce, saettanti come «smussate freccioline che ci vengono da un mondo simile a quello di Alice, ma dotato di una sottile, intricata coerenza che non è soltanto il rovescio dello specchio delle nostre coerenze. Sono spiragli da cui filtra qualcosa di accecante e insieme di carezzevole, sono cuspidi elastiche di qualcosa che deve restare sommerso, per noi (e forse per tutti), ma che pure sentiamo necessariamente nostro.»

I maestri dell’haiku ci insegnano la vita che brulica intorno e dentro di noi. La curatrice (!) ci guida verso lo svelamento del senso, arricchisce di conoscenza quel che pareva troppo elementare. Il poeta schiude la meraviglia.

Insegnare. E poi imparare. Questa è l’Interruzione.

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