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Utenti molto speciali

Affollano le strade delle grandi città, presenti eppure invisibili, più che di cibo hanno bisogno di ascolto e calore… anche di guanti, sì, ma gli homeless cercano soprattutto chi sa trattarli con rispetto.

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Pantaloni neri, antivento e impermeabili. Scarpe comode. Niente guanti, perché le dita dovranno lavorare e quando si stringe una mano serve il calore della pelle. La giacca è rossa, così gli utenti ti vedono da lontano: gli amici meglio riconoscerli alla svelta, soprattutto di notte e in una grande città. Soprattutto se hai fame o freddo.

Koala, Fanny, Sirio… nomi e soprannomi sono importanti a cominciare da quello del gruppo di appartenenza: i City Angels. A Milano sonoCity Angels la preparazione circa una ottantina, tanti i ragazzi ma le fasce d’età sono piuttosto varie. Lavorano sei giorni su sette perché gli angeli la domenica riposano e questo vuol dire che ciascuno deve garantire perlomeno un turno alla settimana. Sono quattro giorni al mese, fare i conti stavolta significa scendere a patti con la complessità della vita di ciascuno (e le scuse che potremmo accampare).

Si ritrovano nel sottopasso dietro la stazione Centrale, il Mortirolo, di fianco alla comunità Exodus. Qui c’è uno stanzone in cui sono accatastati i generi di conforto: coperte, vestiti, bevande e tanto cibo. Ci sono sacchi di pane e focacce, formaggi, yogurt, frutta e verdura… tutte cose che andrebbero perdute se i volontari – ciascuno con la propria rete di solidarietà – non si organizzassero per raccoglierle. Il primo compito? Preparare i pasti: un sacchetto che contenga di tutto un po’. E si spera possa soddisfare chi lo riceverà, perché gli angeli non fingono di ignorarli i gusti degli utenti: anche se chiedi aiuto, non smetti di sapere cosa ti piace e cosa no.

Anche questo fa parte della filosofia e dell’approccio dei City Angels. Non aiutano i barboni, prestano servizio per gli utenti. Cioè persone che per mille motivi si trovano a vivere per strada: stranieri, immigrati, ragazzi City angels 02che si sono allontanati da casa, donne molestate, persone che non hanno retto a un dramma o che, semplicemente, si sono ritrovate senza un soldo.

Quando è tutto pronto le squadre – cinque angeli ciascuna, di solito – si dividono: alcuni viaggiano sull’unità mobile, un van stipato all’inverosimile di indumenti, pasti e bevande calde; altri proseguono a piedi, rendendosi disponibili alle richieste di aiuto. Non si fanno ronde, solo non si ignora chi è in difficoltà.

Io sono con questi ultimi, lasciamo il sottopasso e ci dirigiamo verso la metropolitana. Non siamo ben visti in Stazione Centrale, qui i barboni sono stati fatti sbaraccare da tempo e se li aiuti, ce li riporti, rovinando la bonifica. Quindi se vuoi darti da fare, devi rimanere in strada. Ma ci sono altre associazioni in azione e anche tra chi fa solidarietà ci sono delleNotte angeli regole (zone di competenza, doveri e pure una certa competitività). A ogni fermata Sirio e Fanny cacciano fuori la testa dalle porte del treno per controllare la situazione.  Niente da segnalare e il viaggio prosegue. Ai tornelli di Duomo gli angeli aiutano un ragazzo storpio che, visibilmente ubriaco, si trascina sulle stampelle: urla, dice che non lo fanno entrare che gli hanno rubato i soldi (in realtà ha raccolto un biglietto usato che, ovvio, non funziona). Passerà usando un abbonamento dei volontari.

In un attimo siamo per strada. Non fa troppo freddo e, soprattutto, non piove. È una buona serata. Camminiamo. Il passo è sveltissimo, così ci si scalda e si macinano più chilometri. Una delle prime tappe è la Borsa. Sotto il porticato c’è un ragazzo slavo, ci chiede delle calze e un tè caldo (tutti ce lo chiedono il tè ma a piedi non è facile portarlo) dice che sta City Angels 01male, che morirà: ha l’Aids. “Meno male, un barbone in meno” fa la ragazza accanto a lui e scoppiamo tutti a ridere perché alle volte una carezza ha il senso dell’umorismo. Lei è seduta tra tre strati di coperte, pettinata, distinta. Ci chiede delle salviette per le mani e accoglie una sigaretta offerta da Koala, la tiene tra le dita per tutta la conversazione. Se la vuole gustare con calma, dopo.

Più in là ci sono altri immigrati, servono mutande e calze. Prima di ripartire Koala ci fa notare che le luci che illuminano la facciata del palazzo della Borsa son sempre fulminate, tutte accese non le ha mai viste. Capisco che questa lamentela è una specie di rito collettivo, un refrain come il suo “wait a moment” che ripete spesso e serve per riordinare le idee e decidere le prossime mosse.  Salutiamo il dito medio di Cattelan che a quest’ora e in questa situazione fa tutto un altro effetto.

Non camminiamo, sfrecciamo, compatti e fendiamo le strade del centro, via Dante, piazza dei Mercanti – un tempo era piena di utenti, li hanno City Angels unità mobilefatti sgomberare tutti – e dirigiamo verso corso vittorio Emanuele. Koala riceve una telefonata: è un utente che gli chiede quando andrà a trovarlo, ha bisogno di vestiti e sigarette, più di sigarette che vestiti. Se vi chiedete a cosa servono ancora le cabine telefoniche, ecco la risposta.

In piazza Beccaria intravediamo una ragazza: ci saluta da lontano, che spinge un passeggino lo noto subito e mi allarmo. In realtà Lucia non vive più per strada, per strada ci è stata quindici anni e per strada si è innamorata e ha fatto un figlio. Un bimbo bellissimo e sorridente che appena adocchia una merendina al cioccolato fa il lavoro del bambino – i capricci – e gioca con le dita di Sirio. Arriva il compagno di Lucia, ha fretta – e forse è pure un po’ seccato, la sua famiglia non ha più bisogno di angeli, è lui l’angelo adesso – devono tornare al campeggio dove vivono, chiude a mezzanotte. Lucia si congeda, è orgogliosa, ha una casa dove andare e ci dice emozionata che, forse, la prossima settimana gliene assegneranno una vera. Li salutiamo e Galleria e Duomoio lo so che di loro non mi dimenticherò. Di loro che nonostante tutto sentono ancora il bisogno di stare per strada la notte.

Entriamo in galleria ed è come varcare le porte di un paese. Sono in tanti. Una ventina, in cerchio, prega ad alta voce. Una ragazza di colore appena ci nota si stacca dal gruppo e ci aggredisce: “Siete angeli?! E dove cazzo eravate? Vi abbiamo aspettato per ore stasera”. È vestita bene con tanto di occhiali alla moda usati come cerchietto, piange, ha l’aria disperata. Un utente ubriaco le si avvicina facendo una battuta “non mi devi toccare” intima lei, perentoria. “Nessun uomo mi deve toccare”. L’ubriaco – scopro essere un innocuo molestatore di angeli e non – mi offre una banana e mi fa l’occhiolino. Rido. Koala si scusa con la donna, le postazioni variano loro cercano di aiutare tutti, si giustifica, poi le offre un pasto. “Hai dei guanti?” lo zittisce lei. Cerchiamo ma negli zaini ci sono sciarpe e calze e biancheria… niente guanti. “Il tuo cibo non lo voglio, meglio se muoio” e se ne va.

Ci spostiamo di qualche metro, ci raggiunge un signore che sfoggia un belAiutare gli utenti city angels paio di baffi. Alla domanda come stai ribatte: “Ho un piede nella fossa e uno su una buccia di banana” scoppio a ridere, stasera succede spesso e non me lo sarei aspettata. Con la coda dell’occhio vedo arrancare un giovane: trascina due enormi valige e pure la custodia di una chitarra. Ma è vuota mi dice “tanto canto a cappella, vuoi sentire?” e mi dedica una canzone, poi racconta i suoi piani per il Natale e Capodanno ed è tutto un salire e scendere dai treni tra sorelle, zii e parenti torinesi. Quando si congeda mi invita il giorno dopo in San Babila. Alle quattro inizia il suo spettacolo.

Sono le undici e mezza e io so con certezza di non indossare l’abbigliamento adatto. I piedi sono caldi ma le gambe non le sento più. L’umido si è infilato nei jeans e, non so come, ha scalato la schiena e raggiunto le spalle. Saluto, stringo mani e prometto – è una minaccia, dico, e loro ridono – che mi farò rivedere. C’è bisogno di guanti e di vestiti e di zuppe calde e magari di un navigatore per chi si muove per la città di notte e prima arriva, prima aiuta. Servono tante cose ma le persone speciali non mancano, sappiatelo.

Quello che ho visto e scritto lo devo a Stefania Nascimbeni e Valeria Merlini che, ogni anno, danno vita a un evento – il #natalecongliautori – che è una occasione, non per essere qualcuno e bla bla, ma per fare qualcosa. Stavolta più che fare abbiamo avuto il privilegio di osservare e capire cosa potrebbe essere utile. Gli utenti non cercano scarti ma cibo con cui sopravvivere e indumenti puliti e in buono stato. Se avete la fortuna di avere di più, potete darci una mano a raccoglierli. Scrivetemi a bookblister@gmail.com. Un grande grazie alle persone che hanno voluto esserci e ai City Angels che, per fortuna, ci sono. Sempre.

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Auguri, commenti, mail hot e mal di denti

Anche i blogger, nel loro piccolo…

Voce del verbo fare

4 comments

Lisa 03/12/2015 at 09:10

Cose che fanno bene. Dare poco, ricevere molto. Almeno una volta nella vita dovremmo farlo tutti. E soprattutto, per esperienza personale, certi bagni nella cruda realtà della sofferenza che ci circonda zitta zitta tutti i giorni sono salvifici. Cali dal pero, ridimensioni le pippe mentali, e ti eserciti a dire grazie per tutto quello che hai e dai per scontato. Tanta roba, insomma. Bello. Molto, molto bello. Grazie per la condivisione.

Chiara Beretta Mazzotta 03/12/2015 at 11:07

Ciao Lisa. Verissimo. E poi, banalmente, adesso so di cosa hanno bisogno. E si può aiutarli in tanti modi – piccoli, grandi – basta farlo almeno un po’. (Ti scrivo dopo!)

Barbara 03/12/2015 at 10:21

Bravi. Ci si dimentica spesso che per aiutare basta uscire in strada, davanti casa nostra, anziché volare dall’altra parte del mondo.
E mi piacerebbe che queste iniziative si estendessero a tutto il paese:
“mettere una cesta con il pane avanzato dalla giornata, all’esterno del locale dopo l’orario di chiusura a disposizione di chi ha bisogno.”
http://www.oggitreviso.it/successo-pane-ai-poveri-123195

Chiara Beretta Mazzotta 03/12/2015 at 11:07

Bello, grazie, Barbara!

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