Percorso al buio

Percorso al buio

Dialogo nel buio è un percorso sensoriale che si compie all’Istituto dei Ciechi di Milano in totale assenza di luce, accompagnati da guide non vedenti. Giovanni Gastel ci racconta la sua esperienza.
© di Giovanni Gastel Jr

Il buio mi è sempre piaciuto, succedono le cose migliori: si vedono le stelle, arrivano i primi baci e si consumano gli amori giovanili, si accende il cinema, si corre in moto nella notte.
Si possono mascherare le proprie debolezze, le paure. Credersi più grandi di quanto siamo.
Quando poi si è guidati da una donna dalla voce sinuosa e calda, tutto sembra meno nebuloso.

Il bastone che abbiamo impugnato, piccoli esploratori di un mondo in cui abbiamo perso la certezza della vista, ha aiutato parecchio.

Il percorso al buio organizzato per l’occasione da Stefania Nascimbeni con l’Istituto dei ciechi di via Vivaio è stata una magnifica esperienza.
Non credo che la rifarò, mi è bastata l’intensa visione del buio, mi rimarrà dentro, perché ripetere un percorso che ha come prima qualità l’essere una novità nella mia vita?
Grazie a tutti, però, chapeau…

Mi sono mosso all’interno delle vie scure con Chiara sempre vicino, e questo mi è piaciuto: ho capito che è una persona di cui mi posso fidare, è un’amica, sincera, entusiasta, preziosa.
Il tatto ha funzionato meglio che l’udito, le altre voci erano quasi di disturbo, i profumi erano densi e meravigliosi, mi hanno portato nelle piantagioni di caffè, e nei peggiori bar di Milano vecchia, dove punkabbestia senza soldi bevevano sambuca nelle mattinate di sole tra le macerie della mia giovinezza.
Ecco che poi si sale su di una barca e tutto diventa una scoperta fantastica e iperreale al tempo stesso: il rumore del motore, l’aria marina che ti soffia in faccia, un’ideale isola da raggiungere: lì mi sono sentito a casa. Per questo motivo ho chiuso gli occhi inutili e ho appoggiato il mento sulle mani che tenevano il bastone: mi sono sentito a casa, per mare, per una volta. Infinitamente…

Alla fine del percorso sono arrivato a un bar, anche i piccoli gruppi che ci precedevano erano lì, tutti al buio, a parlare, a raccontare l’esperienza appena vissuta. Tutti entusiasti, un po’ enfatici, forse.
Ero seduto su una sedia, ma mentre nessuno mi vedeva ho appoggiato la faccia sulle braccia incrociate sopra il bancone, stanco, stremato per aver acceso sensi che di solito rimangono un po’ assopiti durante il giorno.
Sentivo le voci degli altri e mi sono ritrovato nella mia infanzia perduta.
Il volto tra le mani, accucciato sulla sedia, ordinando un’acqua naturale, mi sono venuti in mente i grandi pranzi degli zii con mio padre, le loro voci che si perdevano nel fragore delle risate, delle battute.

Io stavo spesso raggomitolato sopra una poltrona poco distante e ascoltavo il vociare allegro, mi destavo un poco quando per un istante che sembrava eterno, tutti facevano silenzio: in quel momento alzavo la testa e li guardavo, i grandi, per capire se fosse successo qualcosa. Ma appena riprendevano a parlare capivo che era passato, che tutto andava bene, che quel posto era sicuro e io potevo riposare sulla poltrona, e riprendevo il mio sonnecchiare, distante, immaginando che un giorno avrei preso posto alla tavola dei grandi.

Per questo motivo, dopo aver bevuto la mia acqua e aver ascoltato l’incastro delle voci degli altri scrittori, gli amici di Stefania, simpatici, cordiali, ben disposti, me ne sono andato.
Mi dispiace di averlo fatto, ma quel vocio allegro mi riportava in una dimensione che avevo quasi dimenticato. Mi è sembrato di perdere la mia maturità, di ritornare a quell’infanzia in cui non avevo ancora posto tra i grandi e questo, oggi, non posso più farlo.
Grazie di cuore a tutti, è stata un’esperienza memorabile e intensa. Indimenticabile.

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