“Seduti!” disse Inge Lohmark, e la classe si mise a sedere. “Aprite il libro a pagina sette”. Tutti aprirono il libro a pagina sette e la lezione incominciò con gli ecosistemi, gli equilibri ecologici, i rapporti di dipendenza e le interazioni tra le specie, tra gli esseri viventi e l’ambiente, le influenze reciproche tra spazio e comunità. Dal bioma del bosco misto passarono alla catena alimentare del prato, dai fiumi ai laghi, arrivando infine al deserto e alle piane di marea.
“Come vedete, nessuno, né l’animale né l’uomo, può esistere da solo. Tra gli esseri viventi vige la concorrenza e, talvolta, qualcosa che assomiglia alla cooperazione. Anche se accade raramente. Le principali forme di coesistenza sono la concorrenza e il rapporto preda-predatore”.
Mentre Inge Lohmark disegnava frecce alla lavagna – dai muschi, i licheni e i funghi verso il lombrico e il cervo volante, il riccio e il toporagno, poi verso la cinciallegra, il capriolo e l’astore, e poi un’ultima verso il lupo –, via via prendeva forma la piramide, sulla cui cima stava accovacciato l’uomo accanto a un paio di animali predatori.
“Sta di fatto che non esistono animali che mangiano le aquile o i leoni”.
Indietreggiò per osservare il disegno a gesso che riempiva ora tutta la lavagna. Lo schema delle frecce univa produttori a consumatori di primo e secondo livello, gli organismi autotrofi a quelli eterotrofi primari, secondari e terziari, e agli inesorabili, microscopici decompositori, tutti quanti accomunati dalla respirazione, dalla dispersione di calore e dall’aumento di biomassa. In natura tutto aveva il suo posto e, se non ogni singolo essere vivente, di certo ogni specie aveva un suo destino: mangiare o essere mangiata. Fantastico.
“Ricopiate il grafico sui vostri quaderni”.
Quel che diceva era un ordine.
L’anno iniziava adesso. I giorni irrequieti di giugno, la stagione del caldo opprimente e delle braccia nude, erano passati una volta per tutte. Quando il sole picchiava attraverso la vetrata trasformando la classe in una serra. Nelle teste vuote degli alunni germogliava l’attesa dell’estate. La sola prospettiva di giorni di ozio totale toglieva ai ragazzi ogni concentrazione. Con gli occhi gonfi di cloro, la pelle unta e la smania sudata di libertà, aspettavano le vacanze sonnecchiando abbandonati sulle sedie. Alcuni erano distratti e incapaci di intendere e volere. Altri, con l’approssimarsi delle pagelle, posavano sulla cattedra le verifiche di biologia fingendo un atteggiamento servile, come i gatti che depongono il topo sul tappeto del salotto. Salvo poi, calcolatrice alla mano, chiedere l’esito del compito durante l’ora seguente, avidi di calcolare il miglioramento della loro media fino a tre cifre dopo la virgola.
Ma Inge Lohmark non era uno di quegli insegnanti che si ammorbidivano alla fine dell’anno, solo perché presto avrebbero perso i loro interlocutori. Lei non aveva paura, una volta rimasta sola, di scivolare nell’irrilevanza. Certi colleghi, man mano che si avvicinava la pausa estiva, diventavano preda di un’indulgenza quasi affettuosa. Le loro lezioni degeneravano in un insulso teatrino fatto di improvvisazioni. Uno sguardo trasognato qui, un buffetto affettuoso lí, patetici tentativi di tenere alto il morale della classe, la miseria di ore dissipate a guardare film. Uno sperpero di bei voti, l’alto tradimento al 10 e lode. Per non parlare del malcostume di arrotondare i voti nelle pagelle di fine anno e traghettare un paio di casi disperati nella classe successiva. Come se servisse a qualcosa. I colleghi non riuscivano a ficcarsi in testa che nuocevano soltanto alla propria salute andando incontro agli alunni. Non erano altro che sanguisughe che ti privavano di ogni energia vitale. Si nutrivano del corpo dell’insegnante, della sua competenza e del suo timore di venir meno all’obbligo di sorveglianza. Indefessi, ti assalivano con domande sciocche, trovate infelici e confidenze ripugnanti. Puro vampirismo.
Inge Lohmark aveva imparato a resistere ai loro attacchi. Era nota perché sapeva tenere le redini ben tirate e il guinzaglio stretto, senza mai dare in escandescenze e lanciare mazzi di chiavi. Ne andava fiera. Si era sempre in tempo a cedere, ad allungare una carota quando meno se l’aspettavano.
L’importante era indicare la direzione agli alunni fin dal primo giorno, mettergli i paraocchi per stimolare la loro capacità di concentrarsi. E se proprio qualche volta il caos prendeva il sopravvento, bastava graffiare la lavagna con le unghie oppure parlare della tenia del cane. Comunque la cosa migliore per gli alunni era far sentire loro in ogni momento che a comandare era lei. Mai far credere di aver voce in capitolo. Quando spiegava, non c’era né diritto di parola né possibilità di scelta. Nessuno aveva scelta. Unica eccezione, la natura e la sua selezione.
Lo splendore casuale delle meduse, Judith Schalansky, traduzione di Flavia Pantanella, Nottetempo, p. 258 (16,50 euro) anche in ebook
5 comments
Interessante il libro, ho letto su Amazon il retro di copertina. Ma tu che ne pensi? Ti è piaciuto?
Ciao, Polimena.
Di solito, quando pubblico gli incipit, sono in fase di “lettura in corso”.
Trovo il tema e la protagonista davvero interessanti. Per lettori avvezzi, direi, che amano lo spessore dietro alla trama.
Ci aggiorniamo a lettura fatta, allora. 😉
A presto allora, questa storia dell’applicazione del darwinismo su una classe scolastica mi pare molto interessante, Soprattutto se trattata con “ironia e scorrettezza”.
La dimostrazione che le leggi dell’evoluzione e quelle del cervello (anima, cuore) non vanno granché d’accordo. E soprattutto che certi rigori nascondono e contengono possibili sbandamenti.
Non fosse costitutiva, tutta questa ferocia (e analiticità) mi lascerebbe diffidente ed indispettita. Ma, appunto, c’è altro sotto.
La domanda è: cosa? Non riesco proprio a immaginare dove possa portare questo incipit.
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