La palestra era immersa nel silenzio. Non si sentiva neanche un rumore, né dalle dodici spalliere marroni, né dal vecchio cavalletto con il cuoio spaccato, né dalle otto funi logore che pendevano immobili dal soffitto. E nemmeno dai sedici bambini che componevano l’orchestra della scuola di Dølgen, che ora guardavano fissi il direttore Madsen.
« Pronti… » gridò Madsen, alzando la bacchetta e scrutandoli attraverso le lenti dei suoi occhiali scuri da pilota.
Madsen si stava già inquietando, mentre il suo sguardo speranzoso cercava Bulle. Sapeva che gli altri membri dell’orchestra facevano i dispetti al trombettista dai capelli rossi perché era un soldo di cacio, e c’era anche da aspettarselo. Ma a differenza degli altri, quel ragazzino così piccolino aveva orecchio musicale, e forse poteva salvarli.
Non trovandolo, lo sguardo di Madsen si fermò sull’unica amica di Bulle: Tina, che suonava il clarinetto. Madsen sapeva che Tina era l’unica in tutta l’orchestra a esercitarsi anche a casa. Forse, dopotutto, c’era qualche speranza.
« Partenza… »
Tutti portarono gli strumenti alle labbra. C’era un tale silenzio che da fuori si sentivano i rumori del caldo pomeriggio di ottobre: il canto degli uccelli, il ronzio della falciatrice e le risate dei ragazzini che giocavano nel prato. Ma l’interno della palestra era buio. E sarebbe diventato ancora più buio.
« Via! » gridò Madsen, sciabolando la bacchetta con un gesto maestoso.
Per un momento non accadde nulla, e non si sentì altro che il canto degli uccelli, il ronzio della falciatrice e le risate dei ragazzini. Poi lo stridio incerto di una tromba, il fischio titubante di un clarinetto, e un colpo azzardato di grancassa. Il rullo inatteso di un tamburo fece sobbalzare il corno, che emise un ululato, e in fondo all’orchestra si sentì un soffio che a Tina ricordava quello di una balenottera azzurra appena risalita in superficie dopo una settimana di apnea. Ma in tutta quella confusione non si era ancora sentita una sola vera nota, e la faccia di Madsen aveva già cominciato ad assumere quel colorito rosso che preannunciava un imminente accesso di rabbia.
« Tre, quatt’! » gridò Madsen, dimenando la bacchetta come una frusta, e come se gli orchestrali fossero gli schiavi che remavano su una galea dell’antica Roma. « Volete suonare, una buona volta? Questa qui dovrebbe essere la Marsigliese, l’inno nazionale francese! Fatela venire fuori, subito! »
Ma la Marsigliese non venne fuori. I bambini di fronte a Madsen guardavano fissi gli spartiti sui leggii, o stringevano gli occhi come se fossero seduti sul water.
Madsen si sentì cascare le braccia, ma proprio in quel momento la tuba prese finalmente vita ed emise un muggito profondo e solitario.
Il dottor Prottor e la vasca del tempo, Jo Nesbø, traduzione di Alessandro Storti, Salani, p. 314 (14,50 euro)