L’incipit del romanzo La storia di un matrimonio di Andrew Sean Greer ambientato negli anni Cinquanta a San Francisco.
Crediamo tutti di conoscere la persona che amiamo.
Nostro marito, nostra moglie.
E li conosciamo davvero, anzi a volte siamo loro: a una festa, divisi in mezzo alla gente, ci troviamo a esprimere le loro opinioni, i loro gusti in fatto di libri e di cucina, a raccontare episodi che non sono nostri, ma loro. Li osserviamo quando parlano e quando guidano, notiamo come si vestono e come intingono una zolletta nel caffè e la guardano mentre da bianca diventa marrone, per poi, soddisfatti, lasciarla cadere nella tazza. Io osservavo la zolletta di mio marito tutte la mattine: ero una moglie attenta.Crediamo di conoscerli, di amarli. Ma ciò che amiamo si rivela una traduzione scadente da una lingua che conosciamo appena. Risalire all’originale è impossibile. E pur avendo visto tutto quello che c’era da vedere, che cosa abbiamo capito?
Una mattina ci svegliamo. Accanto a noi, nel letto, il corpo familiare che dorme: uno straniero di tipo nuovo. A me è capitato nel 1953. Lì, a casa mia, ho visto la creatura che aveva la faccia di mio marito solo grazie a un sortilegio.
Forse un matrimonio non si vede, un po’ come quei giganteschi corpi celesti che sfuggono all’occhio umano: lo si può monitorare solo in base alla forza di gravità, all’attrazione che esercita su tutto ciò che lo circonda. Mi sembra di doverlo scrutare così, il matrimonio, con tutti i suoi fatti nascosti, le parti segrete, perché finalmente mi si riveli, lontano, ruotando come una stella oscura.
Come ho conosciuto mio marito: neppure questa è una storia semplice. Ci siamo conosciuti due volte: la prima nel Kentucky, dove siamo nati entrambi, e la seconda su una spiaggia di San Francisco. È stata sempre la nostra battuta preferita, che siamo stati due perfetti estranei due volte.
Mi sono innamorata di Holland Cook ai tempi di scuola. Vivevamo nella stessa comunità rurale piena di ragazzi da amare – a quell’età ero come una di quelle rane verdissime dell’Amazzonia, sprizzavo emozioni da tutti i pori –, ma io non attiravo gli sguardi di nessuno. Erano le altre a vedersi cascare ai piedi i ragazzi, e anche se io mi pettinavo come loro e staccavo i pizzi dai vestiti vecchi per cucirli sugli orli, non cambiava niente. La pelle cominciava a sembrarmi un vestito troppo stretto; mi vedevo alta e goffa; e siccome nessuno mi aveva mai detto che ero bella – né mia madre né mio padre, sempre pronto a disapprovarmi –, ho deciso che dovevo per forza essere brutta.
Quando poi un ragazzo mi ha guardata negli occhi, mi ha aspettata all’uscita di scuola e è venuto a casa a mangiare una fetta di pane, non sapevo che cosa pensare. Capivo che voleva qualcosa, ma pensavo a un aiuto nei compiti; così in classe facevo di tutto per nascondere i quaderni e sedermi lontano da lui. Non mi sarei lasciata sfruttare. Ma evidentemente non era quello a interessargli, perché a scuola era sempre stato bravo. Per tutti quegli anni non ha mai detto che cosa volesse, ma gli uomini non si giudicano dalle parole, si giudicano dai fatti, e una bella notte di maggio, costeggiando un campo di fragole, mi ha tenuta per mano fino a Childress. È bastato quel breve contatto, al tempo in cui i nervi mi stavano sopra la pelle come trine, per sciogliermi il cuore.
Ero con Holland durante la seconda guerra mondiale. Gli piaceva che parlassi «come un libro stampato» e non come le altre, e quando per lui è venuta l’ora di arruolarsi, l’ho guardato salire sul pullman e partire per la guerra. Un grande dolore che fa sentire molto sola una ragazza.
Non ho mai pensato di potermene andare anch’io, finché non si è presentato a casa nostra un agente federale che ha chiesto proprio di me, nome e cognome. Sono scesa per le scale col mio prendisole scolorito e mi sono trovata di fronte un uomo sanguigno e ben sbarbato, che sul risvolto della giacca portava una spilla dorata della Statua della Libertà: l’ho desiderata con tutta me stessa. Pinker, si chiamava così, era il tipo d’uomo a cui si deve ubbidire. Mi ha parlato dei posti di lavoro in California, delle industrie che avevano bisogno di donne forti come me. Le sue parole erano come strappi in una tenda da cui potevo sbirciare un mondo che non avevo mai neppure immaginato: gli aerei, la California; mi sembrava di accettare un viaggio su un altro pianeta. L’ho ringraziato e lui mi ha detto: «Bene, allora in cambio mi farà un favore». Giovane com’ero non mi è sembrato niente di speciale.
«Finalmente una buona idea» ha commentato mio padre quando gli ho detto che volevo partire. Non ricordo un’altra occasione in cui mi abbia guardata negli occhi tanto a lungo. Ho fatto le valigie e nel Kentucky non sono mai più tornata.
Sul pullman per la California studiavo le montagne che arrivavano fino alle nuvole; e sopra le nuvole montagne ancora più alte. Era come se il mondo fosse incantato e nessuno me lo avesse mai detto.
Il favore che Pinker mi aveva chiesto era semplicissimo: voleva che gli scrivessi delle lettere. Dovevo raccontargli delle altre ragazze del cantiere navale e degli aerei e delle conversazioni che mi capitava di sentire, e le abitudini quotidiane: cosa si mangiava, cosa vedevo, cosa mi mettevo. Mi veniva da ridere pensando all’uso che poteva farne. Adesso posso solo ridere di me stessa: il governo era in cerca di eventuali attività sospette, ma Pinker non me lo aveva detto. Mi aveva detto di far finta di tenere un diario. Io ero scrupolosa: ho continuato anche dopo aver lasciato il primo impiego, quando sono diventata volontaria della Marina. Poche volontarie venivano dalla campagna come me; ci spalmavamo il Noxzema sui brufoli, dimenavamo il didietro ascoltando la radio, ci abituavamo a bere Coca-Cola invece del caffè razionato e a mangiare piatti cinesi invece degli hamburger. Ogni sera mi mettevo a tavolino cercando di scrivere tutto, ma la mia vita mi sembrava troppo vuota; non valeva la pena di raccontarla. Come tanta gente, non avevo orecchie per le mie storie, perciò le inventavo.
5 comments
Tesoro, mi sembra chiaro che qui ci siano molte cose da dire sul perchè uno non voglia vedere ciò che non può piacere. Di che parliamo? Io potrei iniziare l’elenco ma dovremmo completarlo insieme. Con un’accortezza, per favore siate ironici/e i matrimoni si fanno in due.
Elenco di quel che non avevo considerato:
I calzettoni sporchi appallottolati mollati qua e là. Perchè qualcuno che pulisce c’è sempre.
Le bollette che non apre mai, così non le paga o meglio le pagherò un giorno, più tardi possibile, se non mi dimentico prima. Perchè quello è l’obiettivo, dimenticare.
Tesoro, comprendo il tuo stato di shock per calzerotti & Co e bollette con strati di polvere sedimentati che sembrano reperti del pleistocene. Ma qui si dice tutt’altro. Puoi stare appiccicato a qualsiasi essere umano, farlo con devozione per anni, dividere letto, bagno e sala da pranzo, parlare, costruire qualcosa assieme, fare dei figli… e scoprire un giorno che non sai un cavolo di quella persona. I calzini, al confronto di quello che salta fuori qui, sono una caccola sul culo di un elefante!
Ok, quando ho lanciato l’idea di fare insieme a voi un elenco delle cose insopportabili in un matrimonio, sbagliavo. Non è neanche divertente. Pazienza, è stato un entusiasmo paasseggero, tra l’altro
Ma non era mica così chiaro l’intento! Visto il libro, dico. Altrimenti avrei sollevato folle di amiche e conoscenti. E il blog sarebbe imploso causa eccesso di commenti… Anche se, in effetti, credo che le lamentele sino molto molto comuni. Però che te lo scrivo a fare che non t’importa più? 😉
Buona caccia alle bollette
In questo meraviglioso libro ho compreso l’amore vero…. con tanti colpi di scena.
Leggetelo!!
Grazie infinite Chiara, un caro saluto. Sabrina.
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