La casa aveva oltre cent’anni e le solide pareti di pietra erano spesse un metro. Non serviva isolarle, ma preferiva non correre rischi.
A sinistra del soggiorno c’era una piccola stanza d’angolo che lei utilizzava per lavorare o come camera per gli ospiti.
L’ambiente comunicava con un bagno e con un ripostiglio spazioso.
La camera era perfetta: aveva un’unica finestra e, sopra, c’era la soffitta abbandonata.
Basta approssimazioni. Doveva curare ogni dettaglio.
Niente doveva essere lasciato al caso. Il caso era un compagno infido e pericoloso. A volte un amico, altrettanto spesso un nemico imprevedibile.
Il mobile della sala da pranzo era stato spostato conto una parete, liberando così un’ampia superficie sul pavimento del soggiorno.
Non le rimaneva che aspettare.
Il primo pannello di polistirolo arrivò alle dieci come previsto, trasportato da quattro uomini. Tre erano sulla cinquantina, il quarto avrà avuto al massimo vent’anni. Aveva la testa rasata e indossava una maglietta nera con due bandiere svedesi incrociate sul petto e la scritta LA MIA PATRIA. Sui gomiti si era fatto tatuare una ragnatela e sui polsi disegni tribali.
Appena fu di nuovo sola, si gettò sul divano e pianificò il lavoro. decise che avrebbe iniziato dal pavimento. L’unico elemento che poteva presentare dei problemi. I due anziani che abitavano al piano di sotto erano quasi sicuramente sordi. Malgrado non avesse mai sentito un rumore provenire dal loro appartamento, era comunque un dettaglio importante.
Andò nella stanza da letto.
Il ragazzino dormiva ancora profondamente.
La stanza del male, Jerker Eriksson e Hakan Axlander Sundquist, traduzione di Umberto Ghidoni,Corbaccio, p. 380 (17,60 euro)