È finito il tempo in cui ci si lamentava dei personaggi famosi prestati alla scrittura. Oggi, gli autori stanno tutti dentro l’editoria.
Non sono calciatori o figli d’arte, né vip in genere. Gli autori più pubblicati sono critici, editor, editori, giornalisti, librai, traduttori.
Fate un controllo tra i titoli editi: il dato è sorprendente. Non ci credete? Prendiamo la cinquina dello Strega: Covacich ha scritto su diverse testate, Genovesi è anche traduttore, Lagioia ha diretto una collana per Minimum Fax e condotto su Radio 3 una rassegna culturale, Santagata oltre che docente è critico letterario. E il vero mistero della Ferrante non riguarda la sua identità ma il ruolo (o i ruoli) che ricopre nella filiera.
C’è insomma un esercito che in editoria fa la gavetta e pure carriera ma si ritrova, presto o tardi, sulla copertina di un libro. Per alcuni scrivere era l’obiettivo ma per altri – pochi, tanti? – si tratta di uno sbocco inatteso, una vacanza dalla monotonia o una boccata di ossigeno nell’apnea della crisi.
I problemi? Una certa insofferenza per il proprio ruolo e un preoccupante riciclo di energie e idee.
La benzina delle case editrici è esausta: le persone che selezionano, lavorano, producono, vendono e parlano di libri diventano autori. Gli editori pescano nella filiera le nuove proposte perché chi lavora nel settore per forza di cose sta in mezzo ai lettori (o crede di starci). Così si pensa di raggiungerli più in fretta e facilmente questi agognati fruitori di parole. Solo che sono sempre gli stessi e tra loro di non-lettori o lettori occasionali, manco l’ombra. Risultato? La cerchia si stringe ed è tutto un parlarsi e scriversi addosso.
E poi c’è il conflitto di interessi. Il brivido che, chi lavora nella filiera e ricopre più ruoli, deve conoscere e gestire (facendo anche delle scelte di campo precise). Bilico che, nel mio piccolo, conosco bene: recensisco quell’autore perché se lo merita, perché ci ho lavorato, perché lo conosco?
Se scrivi, però tutto si complica: non sei solo comprabile, sei proprio in vendita. Un conto è il chimico che fa pure il giallista, altro è il critico letterario che parla di festival e scrittori e finisce con l’essere lui stesso un autore invitato ai festival. Idem il giornalista che dispone delle pagine della cultura di un giornale, e qui dispensa giudizi e concede spazi ma, come scrittore, abbisogna lui stesso di recensioni. Chi ti elargisce critiche lusinghiere lo fa perché si sente in dovere (per mantenere buoni rapporti di lavoro)? Perché così pensa che parlerai anche del suo libro? Perché altrimenti non pubblicizzerai quel festival letterario?
Stare in campo come giocatore e arbitro è impossibile. Un equilibrismo irrealizzabile che si nota anche dal tentativo, goffo, di mantenere il giudizio neutrale: ed ecco il tripudio di libri belli, storie necessarie, autori bravi… Un mondo in cui tutto è buono e ugualmente di valore e quindi nulla lo è per davvero. E se all’inizio l’acritico è adorato per il suo potere inclusivo (cioè usato per la sua influenza), col tempo è odiato proprio per il suo non essere selettivo, e viene così demolito e
abbandonato. In attesa del prossimo acrobata.
C’è pure un altro contorsionismo: il critico/editor/giornalista/libraio/traduttore e pure autore che, post pubblicazione, diventa consulente del suo stesso editore. Legge dattiloscritti e propone autori. Così oltre al conflitto di interessi di primo grado se ne aggiunge un secondo: quello di una intera tribù. Ché ciascuno di noi ha la propria schiera di discepoli, eletti, affiliati, estimatori (e leccaculo). E ciascuno di noi possiede, oltre a interessi e mire, pure ansie da prestazione e nemici. E se potessi scegliermi gli “avversari”, cosa farei? A chi darei spazio (e potere)?
La questione non è più “scrivono tutti”, il problema è chi sono “tutti”? E i vip, forse, erano il male minore.
45 comments
L’ha ribloggato su Racconti di Marinae ha commentato:
Equilibrismi e contorsionismi molto italiani…
Articolo meraviglioso. Hai impeccabilmente descritto, senza mai citarlo, il tarlo endemico di una intera nazione: il suo vizio antropologico, l’atavico ritardo che è sì culturale, ma dove per culturale intendo l’approccio alla civiltà dei rapporti che creano valore per sé e per gli altri, cioè una cosa lontana anni luce dal familismo imperante esteso alla cerchia di amici, conoscenti ed associati.
nt
PS: giuro che se riesco a pubblicare tre romanzi poi non faccio altro: ci do dentro con il terzo, il quarto, il quinto ecc. ecc. ecc. 😀
Il problema meritocrazia qui c’entra solo in parte. A mio avviso il rischio è che la cerchia si chiuda e i lettori finiscano con l’essere scrittori. Tutti gli altri fuori, faranno altro 😉
Potrei raccontarti un caso che conosco da vicino. Un giornalista di nicchia, che dirigeva una rivista di nicchia e poi anche una collana di libri, sempre di nicchia (peraltro una bella collana) Riceve e legge manoscritti, ma poi pubblica volentieri e quasi esclusivamente i suoi.
Di nicchia eh! Ma minchia!
Be’ una coerenza mica male!
Da fuori, si ha proprio questa sensazione. Che l’editoria italiana si autoproduca e si autoreferenzi, escludendo i non-lettori e quindi assottigliando il mercato.
Questo post mi conferma che l’idea non era poi sbagliata.
La sensazione m’è venuta perchè leggendo in vari blog di scrittura creativa alla fine gli aspiranti nuotano in questo settore. Ed hanno più tempo libero e/o una più libera gestione dello stesso per potersi dedicare alla scrittura seguendo l’ispirazione, che altre persone più “comuni” non possono concedersi, soprattutto in tempo di crisi.
Però così il “prodotto” che ne esce è sempre più distante dai non-lettori, dalla fetta di mercato più larga ed appetibile. Le idee inoltre rischiano di amalgamarsi, quasi fotocopiarsi. Sarà per questo che poi ogni tanto se ne esce un caso editoriale del tutto fuori confine, che però incontra i non-lettori e sbanca i botteghini?
Quella distanza è la misura della mia preoccupazione, Barbara. Proprio quella…
Pure la mia. Perchè più aumenta, più faccio fatica a trovare il libro giusto per la persona giusta. E sono costretta a pescare all’estero.
L’ha ribloggato su EVAPORATA®e ha commentato:
Conosco molto bene i contorsionisti…
Gente snodata ne abbiamo? 😉
E chi con l’editoria non c’entra davvero nulla fa una fatica bestiale, tutto torna. Che figata. Che poi di nomi from inside, comunque bravi, me ne vengono pure in mente, ma come dici tu se il cerchio si chiude, già non è che ci sia la fila per leggere, figurati se diventa un club a inviti.
Ma certo, di bravi ce ne sono tanti. Io leggo ogni settimana buoni libri (altrimenti, in tutta franchezza, farei altro). Il problema? Sono i problemi affrontati al contrario capo all’ingiù a rovescio… insomma, hai capito. Tanta fatica per cosa? Il club degli autori-lettori?
A me sembra proprio che il mercato editoriale italiano sia in avvitamento e la vite è quasi tutta entrata.
Io mi domando dove siano fra gli scrittori italiani i King, i Follet, gli Harris, i Grisham, Connelly, Cornwell e persino i Castle…
Non ci sono perché in Italia la cultura imperante di una critica con puzza sotto il naso considera i romanzi popolari come spazzatura reietta. Un best seller qui da noi fa schifo a prescindere, viene scoraggiato. Leggo interviste di editori che quasi si vergognano a dire d’aver pubblicato un romanzo commerciale. Quindi hai ragione Chiara. La nostra editoria si contorce su se stessa, praticamente muore d’auto asfissia.
È che sempre più spesso chiedono il pop a chi pop non è. E c’è pure la caccia al best seller da laboratorio (autori che si trovano a scrivere romanzi erotici, chick-lit e affini… ma appartengono a un altro universo). Oppure (fraintendimento ben peggiore) pescano tra i popolari. Un blogger certo è pop ma non è obbligato a essere anche uno scrittore pop.
Poi alcuni si stupiscono che le Sfumature abbiano avuto successo. Al di là di giudizi di valore, sono autentiche. Cioè chi legge lo percepisce a pelle che l’autrice si è divertita a scriverlo. E si diverte a sua volta. (E infatti mica compra solo il primo, compra tutta la trilogia).
Il ripiegamento è tale che tra un po’ ci resta un coriandolo.
Sì, ma qui vedo una contraddizione. C’è disprezzo per i best seller oppure una caccia forsennata ai best seller? Le due cose non sono compatibili.
Oltretutto ci sono autori decisamente da best seller – Camilleri, tanto per fare un nome ovvio – che non mi paiono affatto disprezzati, anzi. Esiste un genere – il giallo/noir – ampiamente accettato, sia dal pubblico che dalla maggioranza dei critici e che ha evidentemente trovato una sua strada italiana. Caso mai ci si può chiedere perchè altri genere – popolari se scritti da strianieri – non ci riescono.
Oh Stefano Trucco, che piacere. Io ho seguito tutte le puntate di Masterpiece. E nonostante fosse un programma pieno di bubboni, mi piacque. Semplicemente perché per un aspirante scrittore vedere una carrellata di aspiranti scrittori, sogni, passioni, era un invito a nozze. E fra tutti tifavo per te Stefano. Complimenti per la piazza d’onore. Avresti meritato la vittoria, ma forse son di parte. 😉
Il commento di Chiara amplia quel che volevo dire io.
Faccio un esempio semplice: Moccia, Volo, Gramellini, Faletti, Paolo Giordano con la Solitudine…, le 50 sfumature o lo stesso Dan Brawn con il Codice da Vinci. Sono esempi sparsi di Best Seller o diremmo iper seller degli ultimi anni.
Per la critica son tutti una feccia. Io non voglio discutere qui della qualità insita di questi romanzi (alcuni dei quali non proprio scarsi). Però credo che sia una miopia stramba andare addosso, deridere i romanzi che finiscono tra le mani dei lettori non forti. Giudicare tali lettore come gli scemi del villaggio. Conosco donne che non hanno mai letto un libro in tutta la loro vita, eppure hanno letto le 50 sfumature. Ho parlato con loro cercando di capire cosa le aveva attratte, perché dicevano che era bellissimo o addirittura romantico. La funzione primaria di un romanzo credo che debba essere trasmettere emozioni.
Questo battere e ribattere di critica o di scrittori chic contro il romanzo popolare, credo sia una componete di miopia della funzione del libro. In Italia la visione aulica della letteratura alta spinge a non capire il mercato moderno (fra l’altro i romanzi popolari sono sempre esistiti). Gli editori certo, quelli grossi vorrebbero il best seller costruito a tavolino. Sono molti editori medi e piccoli, che facendo finta che i conti da quadrare non esistano, dicono che loro certi autori non li pubblicherebbero mai.
Ecco, esattamente quello che penso anch’io.
Gli autori che ha citato trovano i favori del grande pubblico perchè, molto semplicemente, raccontano storie possibili, in linguaggio contemporaneo, e soprattutto divertenti ed emozionanti. Volo per esempio non riesco a leggerlo personalmente…il primo con sofferenza, il secondo è lì fermo da un anno. Ma ho uno stuolo di amiche ce se lo divorano in un paio di giorni.
Moccia scrive da giovane per i giovani. Scorrevole e fresco, dannatamente romantico e passionale. Al suo editor vorrei solo dire che se a pagina 312 Niki prende il tè con il latte perchè “mica sono acida come te”, a pagina 514 non lo può improvvisamente preferire con il limone….
Su Dan Brown è stata la scelta dell’argomento la formula vincente. Non a caso in Italia prima è stato pubblicato Il codice Da Vinci, poi Angeli e Demoni, quando invece cronologicamente erano inversi. Merito anche al suo stile veloce, che ti tiene incollato alla pagina, ed alla straordinaria capacità di spiegare teorie complesse con parole semplici. Persino mio padre ha capito phi.
Sulle 50 sfumature credo che, mio malgrado, potrei scriverci un trattato…Mi sono costretta a leggerlo dopo che mia madre me l’ha tirato in testa (tutta la trilogia) minacciando di diseredarmi mentre mia zia non ha smesso un giorno di decantarne le lodi…Diciamo che se si superano le prime 50 pagine ed i propri tabù, è una romantica storia d’amore, truccata da racconto pruriginoso e furbescamente mascherato da fan-fiction di Twilight (in comune hanno i cavoli a merenda).
Per me è stato divertente (sarò stata l’unica ad aver letto il fatidico contratto, ridendo con le lacrime agli occhi?)
…il punto è (e Chiara lo dice spesso) che l’unica maniera di far leggere un non-lettore è farlo divertire ed emozionare. Se un libro già dalla copertina esprime noia, sarà letto da pochi. Se già viene presentato da un elite per un elite, i non-lettori se ne sentono a priori esclusi, e non lo comprano. Se ti viene suggerito dall’amica, che l’ha letto e te lo dice con le stelline agli occhi, corri in libreria.
A parte il fatto che gli editori i romanzi di successo li pubblicano eccome e non si risparmiano di certo, io ribalterei l’accusa di snobismo o meglio l’estenderei.
Esempio classico e molto recente: J.K.Rowling ottiene un enorme successo con la saga di Harry Potter. Successo meritato, direi, e nemmeno particolarmente disprezzato, mi pare, nemmeno in Italia (dove a criticarla sono stati piuttosto i duri e puri del fantasy perchè non avrebbe seguito le ‘regole’).
Di recente pubblica, sotto pseudonimo, un thriller. Questo viene recensito blandamente bene e vende più o meno come un romanzo qualsiasi del genere. Insomma, uno dei tanti. Poi viene fatto filtrare che l’autrice è la Rowling e il romanzo schizza in testa alla classifica, dimostrando che quel che si voleva era il nome della Rowling e non un romanzo. Fra l’altro, i successivi romanzi con lo stesso pseudonimo, Galbraith, sono stati molto ammirati dai critici britannici.
Controprova: fra i Potter e i Galbraith, la Rowling pubblica un romanzo col suo nome, The Casual Vacancy. Non è stato un insuccesso e la BBC ne ha tratto una serie. Ma non è stato nemmeno un successo epocale: i fan sono rimasti un po’ spiazzati non solo dal fatto che non fosse un Potter ma anche dal fatto che fosse un romanzo-romanzo, non ascrivibile a un genere specifico se non al temuto e odiato ‘realismo’. Il lettore medio ha bisogno di precise coordinate commerciali e di genere per apprezzare un libro, altrimenti non sa cosa pensare e nemmeno il ‘nome’ gli basta. Infatti, quando la Rowling gli ha fornito un tradizionalissimo e, francamente, banale thriller ha risposto con entusiasmo, potendo contare sul nome e sul genere.
Il mercato è un puzzle di snobismi incrociati, non solo dall’alto verso il basso ma anche dal basso verso l’alto e, soprattutto, orizzontali, fra generi. Quel che il lettore medio vuole è la certezza di leggere un libro che leggeranno in tanti e che assomigli a qualcosa che conosce già. I casi in cui si inserisce qualcosa di nuovo sono fondamentali ma giustamente rari – e qui il caso della Rowling, che ha creato un sottogenere nuovo ma che poi è dovuta tornare ai generi collaudati, è perfetto.
Ciò che dici Stefano è interessante, ma il caso di Harry Potter rientra nelle casistiche normali. Io non dico che vi sia un complotto generale. Anche Camilleri è ben apprezzato dalla critica. Ma Camilleri rientra proprio nel tuo discorso Rowling pubblico. Camilleri si divide fra Montalbano e i romanzi storici. E i romanzi storici difficilmente diventano best seller.
Il pubblico etichetta il proprio autore preferito. Di recente leggevo una post fazione di King sul suo libro di racconti Stagioni Diverse. Racconta di un dialogo con l’ editor dei suoi esordi. L’editor era riluttante a pubblicare un romanzo di vampiri dopo uno sul paranormale. Sarebbe rimasto etichettato per sempre come scrittore horror. Adesso King ammetteva che quell’etichetta nessuno poteva più strappargliela di dosso. I suoi lettori avrebbero voluto quello e non altro. Decise di intitolare Stagioni Diverse proprio per sottolineare, forse con una punta d’amarezza, che anche storie diverse e forse più belle di molti romanzi di successo, erano sotto i suoi orizzonti.
Conosco lettori di Potter. Di Robert Galbraith non sapevano nulla all’uscita del primo libro, finchè il marketing ha deciso di gridare ai quattro venti che era la stessa Rowling. Ma era inutile, perchè il target è comunque diverso. Si, qualcuno poi l’ha comperato incuriosito, ma non è un libro per ragazzi, non è un fantasy e quindi non ha avuto lo stesso successo di pubblico di Potter. E probabilmente lo pseudonimo doveva servire proprio a concepire il distacco. Ci sono lettori che non si discostano dal loro genere preferito nemmeno sotto tortura (e i puristi del fantasy poi non perdonano!)
Su Il seggio vacante è stata provata la tattica inversa: ti dico che sono la Rowling, però ti dico che questo non è un Potter. Quindi ti trovo facilmente nei motori di ricerca, se ne parla anche nei circoli di Potter (quindi sfrutto il cognome) ma alla fine non è un libro per ragazzi e non è un fantasy, come quelli di Galbraith.. A detta di chi l’ha letto è un libro molto riflessivo, per qualcuno noioso, ma soprattutto l’hanno definito cupo e troppo negativo.
L’aver scritto una saga come quella di Hogwarts porta il pubblico ad avere aspettative elevate. Ma del resto anche Tolkien ha creato una sola Terra di Mezzo.
Il genio letterario non arriva per posta, è già lì alla scrivania.
Scrive opere fantastiche, realizza il passaggio dalla passione allo scaffale in ipervelocità, si che il genio non attende.
Incassa un anticipo eppure non ci sono soldi. I fondi li ha sempre un editore che non è il proprio datore di lavoro.
E’ una tendenza fantastica, geniale.
Un peccato che non venda.
Il commento me lo stampo. Non è lo scaffale ma solo la mensola delle riflessioni. 😉
Grazie, Antonio.
Grazie a te,
una chiara riflessione di riflesso a una seria situazione.
Allora immaginiamo una situazione nella quale tutti gli scrittori siano professionalmente estranei al sistema editoriale; nessuno che scriva nei giornali scriva anche libri; ai giornali sia vietato ricorre al contributo di scrittori; i dirigenti delle aziende editoriali siano digiuni di letteratura; ai docenti universitari sia vietato pubblicare romanzi; e così via. E’ come se io pretendessi che il mio fruttivendolo, che ha pure un orto, scegliesse: o essere produttore, o essere commerciante.
Oppure immaginiamo un’Italia nella quale Vittorio Sereni, poeta, non sia stato dirigente della narrativa Mondadori per vent’anni; nella quale Valentino Bompiani, drammaturgo, non abbia fondato la casa editrice Bompiani; nella quale Cesare Pavese e Italo Calvino non abbiano mai lavorato per Einaudi (né abbiano mai scritto nei giornali); nella quale Pier Paolo Pasolini non abbia mai scritto nei giornali; nella quale Pier Vittorio Tondelli si sia ben guardato dal curare libri come gli “Under 25”; eccetera. Di più: è esecrabile che Giovanni Boccaccio, scrittore, abbia scritto un “Trattatello in laude di Dante”, scrittore anch’esso, e per di più concittadino!
E così via.
Il problema non è l’estraneità, ovviamente. Non è il percorso. La gavetta. La crescita e le competenze. Non è aver ricoperto diversi ruoli nella filiera. E il paragone con Pavese e Calvino è meraviglioso! ma viene da un altro universo ché epoca non è abbastanza.
Il problema sono i ruoli in conflitto. Gli interessi in conflitto. Sono i cosiddetti “scambisti” di spazi, recensioni, pubblicazioni, menzioni a caccia di spazi, recensioni, pubblicazioni, menzioni. Sono i giornalisti che ignorano un festival perché il loro libro non è stato “invitato” o gli scrittori che diventano editor/consulenti e fanno pubblicare solo gli adepti della propria conventicola (perché meno dannosi per la propria produzione).
Per il resto, siamo d’accordo ma non era del resto che parlavo.
Si, è di una potente immaginazione che serve.
Bisogna immaginare certi esordi recenti, fulminanti e strombazzati come il riconoscimento di merito letterario.
Certi e tanti autori, già editor ed editori, vanno davvero immaginati se non come nuovi Calvino e Pavese almeno come nuovi Harris e Connelly.
E’ proprio una gran fortuna per i dirigenti editoriali avere così tanto in comune con esordienti già dirigenti editoriali. Svolgendo lo stesso lavoro, tante esperienze in comune, deve essere stato facile scoprirli come talenti letterari.
Il duro lavoro dell’editore deve essere più facile pubblicando un editore.
Immaginazione comune che quasi aumenta per il casuale incontro.
E se non così via, di certo così và.
A proposito di conflitto d’interessi… Quando a Rai3 provarono a costruire un nuovo accesso per scrittori esordienti – il talent Masterpiece, al quale partecipai – la reazione fu di quasi unanime rigetto, ancor prima che si vedessero gli oggettivi limiti del programma. Un rigetto che univa sia gli autori già pubblicati – quelli di cui parla l’articolo – che i loro critici, questi ultimi divisi in aspiranti Moresco e aspiranti George Martin. Possono esistere due sole strade: quella della cooptazione amicale-clientelare di chi già lavora nel settore e quella della partecipazione a nicchie di genere, spesso autopubblicate, in cui i meccanismi di autopromozione, sfruttamento e scambio di favori sono persino più isterici che nell’editoria ufficiale. La televisione era il nemico, malgrado il fatto che gli anni del suo predominio, fra gli anni Sessanta e l’inizio del nuovo millennio, siano stati gli anni in cui in Italia s’è letto di più.
Pazienza…
Ciao Stefano,
nel caso Masterpiece il problema più che a ruoli, scambisti e conventicole era legato a un format a mio avviso non a fuoco. Si chiama Masterpiece ma come fai a raccontare un romanzo agli spettatori? Farglielo apprezzare e giudicare? Storia, intreccio, stile… mica basta leggere una paginetta o una quarta di copertina. E infatti, non potendo, prevedeva delle prove di scrittura agli autori. Come se il proprio “masterpiece” fosse legato all’abilità di scrivere una short story a tempo a al saper gestire un pitch. Se si fosse chiamato Writers allora… e poi era curiosa la scelta de giudici. Comprensibili i due uomini, molto meno la presenza femminile. E sarebbe di certo stato più interessante prevedere scrittori, agenti, editor, editori… visto che la filiera è lunga, era una occasione per raccontarla e mostrarla in azione. A parte il rigetto – demolire le novità è una moda però anche la misura del successo di un programma – molte critiche erano condivisibili. Comunque io l’ho seguito con interesse e lo hanno fatto anche diversi non addetti ai lavori che mi pare già un risultato.
Per quanto riguarda i meccanismi di accesso: certo, le conoscenze aiutano e le nicchie pure. Ma al momento, più che autori introdotti per conoscenze vedo pubblicare le conoscenze. In passato la maggior parte degli esordienti che ho visto pubblicare proveniva da “fuori”, il massimo dell’entratura era l’aver frequentato un corso di scrittura. Negli ultimi tempi vedo editori più propensi a pubblicare un editor, un libraio, un giornalista culturale e pure un altro editore che un esordiente avulso dalla filiera (seppur provvisto di una community ben identificata). E questo ripiegamento mi pare rischioso.
Per quanto riguarda l’autopubblicazione concordo: lì tra pretesa di recensioni, minacce e finte critiche la battaglia è ancora più aspra e gli “scambismi” imbarazzanti. Però non è editoria.
Il mio problema è che le critiche a Masterpiece cominciarono ben prima del programma, nei confronti dell’idea stessa. Prima si denunciò la possibilità di una spettacolarizzazione della letteratura per poi gongolare sui bassi ascolti, cioè sul fatto che non si era spettacolarizzato abbastanza. Insomma, s’era sventato un mortale pericolo e infatti guarda che Rinascimento letterario c’è stato dopo…
(che poi il programma avesse dei limiti ben evidenti lo so fin troppo bene).
Nel mio caso personale, poi, ho avuto un problema diverso. Il mio romanzo non era nè ‘letterario’ nel senso in cui si intende in Italia oggi, nè di un genere specifico facilmente incasellabile su cui verificare il ‘rispetto delle regole’. Era un romanzo-romanzo, per usare un termine di Simenon, ambientato oggi, con protagonisti giovani, senza pretese sociologiche nè trash nè ‘politicamente scorrette’ e decisamente non autobiografico. Quindi era anche difficile parlarne. Le poche recensioni uscite lo hanno definito ‘pop’, che non vuol dire moltissimo. Solo uno ha riconosciuto la presenza degli Dei greci nei giovani un po’ cretini e esaltati che lo popolano.
Beh, il prossimo sarà un po’ più facile da giudicare dato che sarà storico (all’ultimo Campiello su cinque finalisti quattro erano romanzi storici… Si vede che del presente non si sa cosa dire…)
Siamo nel Paese in cui se elogi gli ebook ribattono “eh, ma il profumo della carta”, come se pubblicare digitale equivalesse a bruciare un libro. Porta pazienza! E trovo deliziose le crociate in difesa della letteratura. E chi vuoi l’attacchi in un Paese dove leggono in due! Al massimo ci vorrebbero le campagne per scongiurarne l’estinzione… E poi parlare di letteratura era già di per sé un nonsense. Si parlava di narrativa, il format era su questo. Romanzi mainstream e di genere… per la letteratura si vedrà.
Le polemiche pre-programma potevano essere molto salutari (modello Grande Fratello, per intenderci) per gli ascolti, poi i problemi del format (e il collocamento nel palinsesto) non hanno aiutato e l’audience è stata quella che è stata. E il tuo problema, a mio avviso, è stato quello di tutti: raccontare un romanzo leggendo un dialogo e qualche paginetta, facendo riassuntini e presentando personaggi, era una impresa impossibile. Farlo senza annoiare, intendo. Tu avevi pure l’impaccio di non poter rientrare in una categoria ben definita (e categorizzare aiuta a dare una idea della storia a veicolarla più in fretta, ovvio).
E, comunque, i premi non rappresentano la qualità letteraria del nostro Paese, né la capacità di raccontare il quotidiano e neppure evidenziano le urgenze narrative più pressanti. I premi rappresentano la qualità e l’efficacia degli “scambismi” editoriali e delle logiche di potere.
Il problema con gli ebook non è l’odore ma il fatto che non si ricordano. Non per niente in tutto il mondo gli studenti preferiscono studiare (almeno quelli che vogliono studiare) sui libri di carta: non è molto utile perdere tempo su testi che ti dimentichi non appena li hai letti.
Per il resto, vorrei fosse chiaro che il mio libro poi è uscito. Appena in tempo per essere ignorato da quel mondo di cui parlavi. Pazienza.
Scusa, Stefano, ma questa è una curiosa teoria! Nel mondo gli studenti che? Nel mondo gli studenti usano il digitale e studiano con il digitale. Sottolineano, fanno schemi, selezionano il testo, lo condividono. Noi non lo facciamo perché siamo vecchi e il nostro apprendimento è modellato sul nostro tempo. E così scriviamo, usiamo la penna e tanta carta. Ma siamo noi il limite, non il device. (A dirla tutta io ormai lavoro e leggo al 99 per cento con un monitor e, per ora, ricordo parecchie cose :D)
È un cliché tipico: carta romantica sana positiva bella utile. Digitale freddo asettico cattivo sterile…
Esempio: uno sta scrivendo su un blocco, l’altro smanetta (notare il verbo) con il cellulare. Chi cazzeggia dei due? Magari quello sul blocco sta facendo ghirigori e l’altro con il cellulare sta leggendo Kant.
E del libro lo so. Se non sono del tutto bollita, ci siamo incontrati anche a Writers. Il problema non è (solo) pubblicare ma essere sostenuto. Altrimenti è un dare in pasto ai pesci(cane)…
Il conflitto di interessi è un argomento sempre delicato e spinoso, troppo spesso sottovalutato e di fatto ignorato nell’editoria.
Se sei un magistrato, devi dimetterti per fare il parlamentare, perchè potresti condizionare l’attività legislativa a vantaggio della tua categoria se non addirittura per interesse personale.
Se sei un giudice, non puoi giudicare un tuo familiare.
Se sei un avvocato, non puoi patrocinare in un processo dove il giudicante sia un tuo parente.
Se sei il responsabile di una gara d’appalto, non la puoi far vincere a tuo zio.
E così via, gli esempi nel diritto, nella finanza, nella politica, insomma, nel mondo là fuori, quello vero, sarebbero infiniti.
Invece se sei un editor o un traduttore di una casa editrice, per la stessa casa editrice puoi pubblicare e non c’è problema.
Questo tuo post interessante fa da contraltare alla critica, da parte di numerosi osservatori del mondo editoriale, verso quella massa enorme di perfetti sconosciuti (a volte anche talentuosi ma allergici alla grande editoria), e quindi estranei ai meccanismi dell’editoria, che scelgono di autopubblicarsi o di farsi pubblicare da altrettanto sconosciute case editrici… anche in quel caso ci starebbe bene il tuo “tutti pubblicano, ma tutti chi?” 😉 ciao
Criticare un autore perché si autopubblica è curioso! Uno si mette in gioco, non unge l’inutile Eap e ci si lamenta pure?! Al massimo ci si dovrebbe lamentare della compravendita di giudizi positivi e dei trucchetti per salire in classifica…
E i piccoli editori di qualità (non quelli che giocano all’editore ma poi, alla fine, sono Eap) sono preziosi. E cominciare da lì il percorso è salutare. Fai i conti con il meccanismo, prendi le misure… e intanto cresci come autore. Se non sei pronto (e ben supportato) il grande editore può essere il gigante che ti schiaccia. Ciao!
Premesso che leggendo i commenti mi verrebbe da dire “basta parlare di autori vissuti nel secolo scorso o cmq secoli fa.” perché sono paragoni che secondo me non possono stare in piedi con quello che succede oggi, perché allora giustifichiamo anche tutta l’editoria a pagamento.
Comunque secondo me le contaminazioni vanno bene in generale: un editor dato che lavora tutti i giorni con le parole potrebbe anche essere un bravo scrittore. E visto che se ne intende, visto che i libri sono il suo lavoro, non vedo nulla di male se gioca anche diversi ruoli nella filiera editoriale.
Il guaio è che quasi sempre non si prende la dovuta distanza e si manca di obiettività perché si è troppo dentro.
Silvia, certo, ma non si nega la liceità delle contaminazioni (se scrivo narrativa, posso essere molto bravo a scrivere per la pubblicità o il testo di una canzone) né si parla di qualità (scrivo perché sono capace), si parla di ruoli e scelte di campo. Un editor che lavora tutti giorni con le parole può essere un bravo autore, ovviamente, ma il punto è che se il suo ruolo è fare l’editor, quando scende in campo come autore crea un conflitto. Conflitto che si gestisce meglio se, per esempio, l’editor non pubblica con la casa editrice per cui lavora. Meno bene se pubblica con la casa editrice per cui lavora. Perché? Perché fare il mister e darsi anche un ruolo di titolare nella squadra a mio avviso è inaccettabile. O perché da editor potrebbe scegliere i testi da pubblicare quindi, essendo anche lui pubblicato, le voci con cui confrontarsi e quelle, altro esempio, contro cui gareggiare a un premio. Diversi grandi di universi ormai lontani (gli autori del secolo scorso :D) hanno fatto scelte di campo precise in merito. Questo è quello di cui parlo.
Ecco il fulcro: i ruoli di mister e titolare ricpperti dalla stessa persona. E’ un po’ triste la facilità con cui questa persona pubblica andando sul sicuro, non rischia nessuno mentre gli altri arrancano, perchè tra gli altri non c’è solo chi non sa scrivere e sogna ad minchiam, c’è anche chi suda, sa scrivere e si batte per migliorare, ritagliandosi ore da ogni cantone. E quando senti parlare di libri da certi addetti ai lavori davvero la voglia di leggere scappa, si nasconde e se già non l’avevi ciao.
L’ha ribloggato su In Nomine Artis – Il ritrovo degli Artisti.
Signori miei (cit. Jerry Lewis di Pontassieve), potreste gentilissimamente essere tutti e tutte un po’ più concisi?
Scrivete cose meravigliose ma mio dio stringete, stringete! 😀
Riguardo alla mia affermazione per cui ‘gli ebook non si ricordano’ potrei citare una quantità di studi, ricerche e sondaggi, alcuni pure seri, ma non lo faccio perchè si tratterebbe di una pura strategia retorica, peraltro inefficace.
Quindi faccio prima a dire quello che penso come se fosse una ‘self-evident truth’ o, alla peggio, una mia opinione puramente personale e lasciare alla realtà se confermarla o meno.
Ho citato il fatto che il mio libro fosse uscito non per te ma per altri che stessero leggendo: mi capita spesso di sentirmi dire cose come ‘Ti ho visto a Masterpiece; è uscito poi il libro?’.
Quanto alla mancanza di supporto non è nemmeno il caso di parlarne; preferisco pensare al prossimo.
Di sicuro i dati non mancano e sono certa tu sia documentatissimo, Stefano. Solo che gli studi andrebbero fatti sulla prossima generazione… non so se mi sono spiegata.
Hai fatto bene a raccontare del libro, io ero solo preoccupata di essermi sognata d’averti visto. Più che la memoria, perdo colpi 🙂
E in bocca al lupo per il prossimo.
Chiara
A tal proposito consiglierei di leggere Ernesto Ferrero che racconta della vecchia e della nuova editoria; guardandomi indietro penso a Italo Calvino – gli estimatori mi scuseranno- uomo invidiosissimo e a mio avviso sopravvalutato (non linciatemi ma alcune sue produzioni sono geniali altre meno). Per il resto abbiamo anche Chiara Valerio a capo di Nottetempo. O Mario Desiati. Un elenco infinito. Grazie per l’ottimo spunto di riflessione.
Tutto verissimo. Mi viene da chiedermi se questo equilibrismo non contraddistingua oggi un po’ tutti i settori, non solo l’editoria. Siamo tutti multitasking, tutti indossiamo più di un cappello, spesso uno sopra l’altro, in un gran caos di ruoli. Certo, resta la domanda: ma il lettore puro, che non è anche aspirante scrittore/critico/giornalista, esiste ancora?
Be’ qui più che multitasking (definizione ottimale per indicare il coefficiente di distraibilità delle persone, non di efficienza 🙂 ) si tratta di conflitto di interessi. Basta andare in campo legale per verificare che lì i paletti vengono messi.
E più che lettori puri, qui da noi mancano i lettori.
Ciao, Rosa!
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