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Tramando: si comincia dal terzo posto

Più di un centinaio i racconti (contando quelli fuori tema, sarebbero stati parecchi di più). Insomma, mi avete tenuta piuttosto occupata!

È stato interessante vedere cosa siano per voi gli “sgarri quotidiani”. Il condominio è il “luogo del delitto” per eccellenza. E lo dico in senso letterale, perché di morti ammazzati, tra vicini e dirimpettai, ce ne sono stati diversi. Come ambientazioni preferite seguono le poste, l’inps, i piccoli paesi… luoghi dove la convivenza forzata e casuale si unisce a dinamiche di potere – chi comanda sul nostro tempo, sul nostro riposo, sul nostro spazio privato – capaci di innescare i meccanismi più spaventosi.

Di “nemici da amare”, poi, è pieno il mondo. Si nascondono tra i coinquilini, nei cortili, a scuola e poi in ufficio. Sono mostri che annientano vite, innamorati crudeli, presenze odiate ma necessarie per sopravvivere, perché senza la battaglia la vita si riduce spesso al nulla. Insomma, avete schiuso diverse “finestre” ed è stato molto divertente sbirciare oltre il vetro!

Il racconto terzo classificato è di Tomas Carosella. L’ho scelto perché unisce alla freschezza espositiva la passione per i temi che racconta. Una voce credibile, che ha saputo trattare con originalità il concetto di sgarro e di nemico. Complimenti a lui e buona lettura a voi!

   Tornavamo dalla solita noiosa messa – una domenica mattina di un anno e mezzo fa – dove Don Fausto, il nostro prete, ci aveva messo in guardia sulla pericolosità di certi cartoni animati e di certi fumetti, e così la mamma mi aveva rotto le scatole per tutto il viaggio di ritorno – sette o otto minuti poi, ma sapete che palle?! – sulla violenza dei fumetti che leggo e che mi fanno diventare scemo, e su tutti i giochi di guerra che faccio, e sopratutto sui libri di storia di argomento bellico che divoro. “Bellico” lo dico io, lei li chiama “quei libri lì, dove ti raccontano come ammazzare, non so cosa ci trovi, Francesco, non sei mica un bambino normale, lo dico sempre io a tuo padre, ma lui figurati cosa gliene frega, sempre troppe scuse con le preoccupazioni del lavoro, e poi si piazza lì a vedere l’Inter” e non la finisce più. Io non rispondo niente, tanto lo so che non è un dialogo, ma un monologo. E cosa ne capirebbe lei dei russi che si ritirano facendo terra bruciata davanti a Napoleone, dei nazisti che superano la linea Maginot limitandosi a passarci di fianco dal Belgio, della falange macedone che spazza via eserciti di mezza Asia e arriva fino in India per la grandezza di Alessandro Magno?
   Poi sì, leggo anche i fumetti, ma quando voglio rilassarmi, e poi, a raccontarvela tutta, almeno ne posso parlare con i miei compagni di classe, perché nessuno legge i libri che leggo io, e io non voglio essere un bambino isolato. Un bambino complicato, come Marco, della 3a F: ho sentito due insegnanti che ne parlavano in corridoio, e dicevano che gli interessa solo la matematica, che è disturbato. Io ci ho parlato una volta e mi è sembrato normalissimo, così ho capito che se non hai voglia di giocare a pallone e sei molto intelligente, significa che sei un “ragazzino difficile” e chiamano i tuoi genitori a parlare con i professori. “Ha dei buoni voti, ma non si integra, non partecipa alle attività”. E siccome io non voglio che chiamino i miei genitori a parlare, leggo tanti fumetti di cui parlo con i miei compagni, e all’intervallo gioco sempre a pallone, anche se mi mettono sempre in porta perché, come dice Antonio, un compagno bocciato bravissimo a pallone – lo chiamano Messi – “di calcio non capisci un cazzo”. Alla fine non ha neanche tutti i torti, però non mi trattano tanto male. Ad Antonio sto simpatico perché gli racconto come venivano torturati i prigionieri di guerra nelle varie epoche e lui si diverte a fare confronti con la camorra in Campania. Lui viene da un paese vicino a Napoli, ed è arrivato a Milano perché suo papà è stato messo al confino qui al nord. Così io nella scuola sono abbastanza rispettato perché sono amico di Antonio, e alla fine stare in porta non mi dispiace, perché la palla sta tanto tempo lontana, e io posso ricostruire nella mia testa le mie battaglie preferite.
   Poi, intendiamoci, non voglio mica dire che sono intelligente come Marco della 3a F, e lui almeno diventerà un ingegnere o un famoso matematico, io con le mie battaglie dove voglio andare? O almeno così mi dice mio padre quando dico che voglio studiare storia e insegnare all’università, e lui risponde “un altro testa di cazzo pieno di cultura e disoccupato! Guarda tuo padre, io non ho potuto studiare e avrei voluto, e tu che puoi farlo vuoi fare una scuola per diventare disoccupato! Ah ma tu vai al professionale, altro che liceo, non me ne frega un cazzo di quello che dice il nonno”, e giù a litigare con mia mamma, perché il nonno è suo padre, che ha fatto il liceo classico e il militare di carriera, era tenente nella Seconda guerra mondiale e ha combattuto a El Alamein. Lui è il mio mito, mi ha raccontato tante guerre e battaglie, solo che il papà dice che è un vecchio rincoglionito e che sua figlia che ha studiato intanto la mantiene lui, e mia mamma grida “stai tu a casa a curare i bambini allora”, sì perché ho anche una sorellina, Lucia, che ha 7 anni. Insomma io lo so che il papà non ha tutti i torti, al telegiornale dicono che ci sono tanti laureati in materie umanistiche disoccupati, ma io voglio insegnare storia all’università, tutto qui, non penso di poter fare altro nella vita.
   Così, tornando a quella mattina di un anno e mezzo fa, ero appena sceso dalla Micra della mamma, e guardavo il palazzo di fronte al mio con un po’ di paura, perché c’è sempre un gruppo di tre o quattro amici di 13 anni con le loro bici che mi prendono per il culo perché vado a messa, con la mamma e la sorellina oltretutto. Insomma, non è che ho proprio paura, più che altro mi vergogno, quelli mi fanno i versi dietro e i gestacci senza farsi vedere da mia mamma. Ho un po’ paura quando sono da solo, mi gridano “non vai a messa con la mammina oggi? Cosa fai con la sorellina in camera? Portala qui che ti facciamo vedere come si fa!” e giù risate a crepapelle… uno ha già il motorino anche se non ha ancora l’età, e ha già imparato a fare le impennate, effettivamente vederlo è uno spasso – ma guardo di nascosto dalla finestra. Allora quando li vedo corro via veloce con la bici che mi ha regalato il nonno, e mi sento tranquillo, perché con la bici sono un razzo. Ecco, forse se non diventerò un professore di storia potrei fare il ciclista; sono magro magro ma alto per la mia età, spero che un giorno i muscoli mi vengano, e poi mi posso sempre allenare, magari non diventerò un Coppi o un Gimondi o un Moser, ma potrei essere un bravo gregario che lavora per la squadra, come in porta a scuola quando giochiamo a pallone. Sì, perché il ciclismo è l’altra passione che mi ha passato il nonno, che mi racconta tutte le storie del ciclismo di un’altra epoca, il ciclismo eroico dice lui, e io in camera ho appeso la foto di Bartali che passa la borraccia a Coppi, e una di Moser che sta facendo il record dell’ora a Città del Messico in Messico, perché lì c’è l’altura, e il nonno mi ha spiegato che l’aria è rarefatta e si va più veloci. Ma non vuol dire che sia facile, altrimenti andrebbero tutti a fare il record dell’ora lì! Ma papà dice che è uno sport di “dopati” o “drogati di merda”, dipende da come gli gira quella sera, e “vai a fare il calciatore, lì sì che si fanno i soldi facendo un cazzo!”, e mi dice quanto guadagna questo o quel giocatore, “ti rendi conto? È una vergogna”, e mia mamma “bella coerenza, e dici a nostro figlio di fare il calciatore? Guadagnano così per colpa di cretini come te che guardano partite tutte le sere”, e mio padre “stai zitta tu, cosa ne vuoi sapere di lavoro? Mi rompo la schiena tutto il giorno in officina, potrò guardare la partita alla sera o no?” e mia mamma “guarda che io lavoravo in un bell’ufficio in centro, e ho lasciato il lavoro per badare ai figli perché me l’hai chiesto tu, non osare rinfacciarmi certe cose”, e mio padre “sì, sì, va bene, ma spostati che stanno battendo il calcio d’angolo e di testa siamo forti, se mi perdo il gol poi mi incazzo” e quello che mi fa arrabbiare non è che il papà tratta sempre male la mamma, o che legge solo Tuttosport e non gliene frega niente dei miei libri – “vieni a farti un po’ di cultura vera, Francesco, lascia stare quelle storie di corazzate che non ti servono a niente nella vita di tutti i giorni” e giù risate quando vengono i suoi amici una volta al mese per la partita importante. Io mi rifugio in camera, ma lo sento che dice “mio figlio è strano, è colpa di sua madre e sopratutto di quel coglione di suo nonno, sta tutto il giorno a leggere, a scuola è bravo eh, ha preso l’intelligenza pronta di suo padre, ma non ha capito che con la cultura non si mangia… con l’officina ho comprato la casa e l’Audi A8 che non se la possono permettere neanche tutti i dirigenti d’azienda, senza contare l’utilitaria di mia moglie che ogni tre o quattro anni gliela cambio, ma lei mica vede le macchine di dieci anni di certe sue amiche, anzi, rompe pure le palle perché quella ha la macchina così stilosa… ma non vedi che cade a pezzi? Io ti faccio andare in giro sicura, cazzo, ma è fiato sprecato, cosa vuoi che capisca di sicurezza” e giù altre risate. Quello che mi fa arrabbiare davvero, dicevo, è che il papà un po’ ha ragione, perché tutti gli anni al Giro d’Italia e al Tour de France fanno i controlli e trovano sempre qualche ciclista dopato, e io ci rimango male e ogni volta papà mi dice “allora, vedi che tuo padre ha ragione?” e la volta che ci sono rimasto più male di tutte è quando hanno beccato Marco Pantani, che era il mio mito – con mio nonno – il Pirata, perché era magro come me e andava forte in salita come i ciclisti dell’epoca eroica, come gli scalatori spagnoli, e faceva dei duelli stupendi con Miguel Indurain, che era spagnolo ma non era uno scalatore. Indurain era il ciclista più forte di quel periodo, e ha fatto il record di cinque Tour vinti di seguito, ma in salita non riusciva a tenere Pantani, ed era intelligente perché se avesse cercato di tenerlo sarebbe scoppiato, invece tanto poi era troppo forte a cronometro, e aveva anche la squadra più forte, perché al Tour c’è anche la cronometro a squadre, e a me non piace la cronometro a squadre perché se uno ha la squadra più forte guadagna tanti secondi e non è giusto perché è uno sport individuale. Infatti io preferisco il Giro d’Italia perché non c’è la cronometro a squadre, e di solito ci sono più montagne dove vincono gli scalatori. Ma Pantani è riuscito lo stesso a vincere il Tour – oltre che il Giro – ed era il mio mito, solo che poi è morto per la cocaina, e mi ha fatto piangere, sopratutto perché mio padre mi ha detto “te l’ho sempre detto che era un drogato, un debole”, e invece non era debole, era tanto forte quando si alzava sui pedali e andava da solo sulle salite, sull’Alpe d’Huez, sul Mortirolo. Però deve avere trovato le compagnie sbagliate, come dice mia mamma, delle persone cattive… io ci sono rimasto tanto male, e ho tolto la sua foto se no mio papà continuava a dire cattiverie ogni volta che la vedeva. Mi stanno simpatici anche i velocisti che finiscono il Giro e il Tour, perché fanno una fatica bestia e in salita vanno pianissimo – però sempre forte rispetto alle persone normali – e passano delle ore dopo che sono passati gli scalatori e i ciclisti che fanno classifica – si dice così – e quasi non ci sono più neanche i tifosi sulle strade! Ci vuole tanta volontà! Comunque dopo questa cosa di Pantani ho deciso che i miei miti più miti sono quelli morti, perché non gli può succedere più niente, non possono più doparsi o prendere la cocaina, a parte che ai tempi di Napoleone la cocaina non c’era.
    Quella mattina di un anno e mezzo fa insomma, guardavo verso il palazzo di fronte – noi abitiamo in dei palazzoni nel quartiere Comasina – per vedere se c’erano quei ragazzi, e invece sono rimasto di sasso: da una finestra socchiusa al piano terra potevo riconoscere, sulla parte interna del davanzale, la statuina dell’Ammiraglio Yamamoto, Comandante in Capo dell’Imperiale Marina Giapponese e, dietro di lui, le sagome delle quattro portaerei giapponesi, con dei piccolissimi pezzettini chiari sopra che non riuscivo a distinguere, ma che erano di sicuro gli implacabili caccia Zero. Ero incantato, con il viso schiacciato tra le sbarre della cancellata del palazzo, completamente immobile a due metri da quella finestra. Sentivo in lontananza la voce di mia madre: “Francesco, spicciati, ma cosa fai? Dài che devo preparare da mangiare” e mia sorella mi tirava per la manica della giacca “dài, Fra, mi metti il cd con il cartone nuovo?”. E così mi accorsi solo dopo qualche secondo di lui. Dietro alle portaerei c’era un bambino e lo conoscevo, era Ivano, me lo ricordavo perché all’intervallo stava sempre da solo, doveva essere della 5a G.
   Mi diede fastidio essere colto come in un’imboscata ben portata, ma lui mi guardava sorridendo, allora mi calmai un po’. Fu un errore, aveva studiato tutto. Il sorriso divenne un ghigno come quello di Joker il nemico di Batman, e con le mani fece segno di attaccare con le sue portaerei contro di me, e poi verso la finestra di casa mia al piano terra del palazzo di fronte e allora con orrore capii. Sul mio davanzale l’Ammiraglio Nimitz e la sola portaerei Saratoga venivano investiti da una valanga di fuoco giapponese, la mia Saratoga incendiata in più punti, la contraerea sparava all’impazzata abbattendo uno Zero dopo l’altro, ma non bastava, erano troppi… la mia Saratoga incenerita, inabissata, a cambiare quella che era stata la realtà, fortunosa per gli americani, della battaglia delle Midway.
   Entrai in casa senza una parola, lui era lì aspettava, guardava trionfante, nell’attesa che si compiesse quello che doveva compiersi. Misi sul fianco la Saratoga, feci cadere Nimitz e poi li tolsi dal davanzale. Era stata una sconfitta devastante, non potevo neanche definirlo un attacco vile, poiché le mie forze erano schierate in campo aperto, lì sul davanzale, pronte alla battaglia. Solo non conoscevo la forza del mio avversario, si nascondeva, dietro le nuvole, dietro l’anonimato, ma ora sapevo chi avevo davanti, ora sapevo che nel palazzo proprio di fronte al mio, lì alla Comasina, c’era un avversario temibile, un nemico che studiava le mie mosse per poi attaccarmi con grande potenza di fuoco. Non mi sarei più fatto cogliere così impreparato, lo giurai a me stesso.
   Passai il resto della giornata inebetito, a cena non dissi quasi una parola, tanto i miei litigavano perché mia mamma diceva che si era rotta di servire patatine e birre agli amici di papà, e che potevano anche comprarle loro qualche volta, e papà rispose che lei però 50 euro “a botta” per i trucchi poteva spenderli, e di fare la brava che quella sera c’era il derby ed era già teso. Mi chiusi in camera mia, e quasi non sentivo le urla dei tifosi in soggiorno, pensavo a come schierare le mie forze per non rischiare di perdere gli eserciti e i combattenti migliori in modo stupido, magari per gloria personale – “non mandarli al macello come Cadorna” mi dicevo – forse era meglio una tattica attendista ma a volte aspettare è fatale! Decisi allora di sfidarlo sul mio terreno preferito, e preparai il tutto.
   Il giorno dopo all’intervallo ero tesissimo. Dissi ad Antonio che mi ero fatto male cadendo in bicicletta e non potevo giocare, mi guardò storto e poi disse “Okay, bello, ma poi mi racconti come funzionava lo stivaletto maltese eh?”
   “Sì, certo, malese veramente…”
   “Sì, sì, quello, quello lì per stritolare il piede, figata!”
   Mi aggiravo per il giardino sempre più teso e poi lo vidi. Ivano, da solo come al solito, vicino al muro, si rigirava qualcosa tra le mani.
   Mi avvicinai, si accorse di me e mi fissò serio. A un passo da lui mi fermai, aveva tra le mani un soldatino, era un cavaliere ussaro, il bastardo li sceglieva bene i cavalieri! Ci guardavamo senza fiatare, e gli allungai un foglietto. Lui lo aprì, e lesse la sola parola che avevo scritto: Mesopotamia.
   Mi guardò serio, trattenendo a fatica un sorriso, la stessa cosa che successe a me, chissà come mai, forse tutti e due eravamo sicuri della vittoria, e la cosa mi spaventò un po’, ma poi pensai che quello era il mio terreno preferito, Sumeri, Babilonesi, e soprattutto Assiri, guerrieri feroci e instancabili, capaci di costruire un grande Impero, di arrivare con Assurbanipal a sottomettere gli Egizi, e io avevo la statuina del Sardanapalo, così chiamavano i greci il grande Assurbanipal!
   Aspettai due giorni, tre, poi quattro, cominciai a pensare che non avevo trovato un grande avversario, che era un codardo, che scendeva in campo solo quando non c’erano dubbi sulla vittoria, ma ecco, che il quinto, come tutti i giorni, osservai a lungo la finestra, e finalmente nel pomeriggio la vidi socchiudersi: scesi di corsa in strada, attraversai quasi senza guardare, troppo concentrato nel vedere e valutare lo schieramento avversario. Quelli erano Assiri! Fanti assiri, arcieri e lancieri, seguiti da carri pesanti e cavalleria. Allora la sapeva lunga… Tornai verso casa pensando e pensando e pensando. E alla fine presi una decisione: la mia veloce cavalleria numida fu schierata in forze, una cavalleria leggera e rapida, che avrebbe avuto la meglio sul terreno di battaglia pesante che si era creato con quattro belle manate di fango prese dai vasi di gerani. Pregavo che Ivano apparisse presto alla finestra o per strada, prima che mia madre vedesse in che stato era il davanzale.
   E Ivano apparve. Si avvicinò per vedere bene perché non capiva cosa fosse tutta quella roba marrone sul mio davanzale, e poi fissò la scena incredulo. Tornò a casa, e tolse di mezzo i suoi Assiri impantanati!
Vittoria!
   Il giorno dopo mi sentivo un po’ a disagio a scuola, invece di essere felice – e non so se speravo di vedere Ivano o no – mi venne incontro lui, mi guardò duro per qualche secondo e poi disse: “Furbata”.
   Io risposi “eh, un po’, ma sai i temporali…”
   Rimase serio ancora un po’ e poi scoppiammo a ridere insieme. Ci guardammo intorno come due complici beccati mentre rubano, e poi Ivano tornò serio e disse “alla prossima”, e scappò via.
  Da allora continuiamo a combattere, e a parlarci poco, tantomeno a invitarci uno a casa dell’altro dove potremmo vedere le rispettive forze! Il nonno me lo diceva sempre, le informazioni sono importanti e gli approvvigionamenti pure! Infatti ora litigo sempre con la mamma perché non mi vuole portare al negozio specializzato in miniature dall’altra parte di Milano. Ma lei non capisce: mica posso continuare a comprare i soldatini nello stesso negozio dove va il mio peggior nemico!

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Fabrizio Canciani

3 comments

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Sara 03/02/2012 at 18:45

Storia interessante…il ragazzino sa il fatto suo! Complimenti all’autore!

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Anonimo 08/02/2012 at 14:06

grazie cara Sara, e nei prossimi giorni mi leggerò con calma i racconti delle 2 signore che mi hanno battuto!!! 😉

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Anonimo 08/02/2012 at 23:13

…bravo bravo…

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