Un romanzo di Vittorio Bongiorno edito da Einaudi Stile Libero che racconta di un paese alle prese con il più grande festino di tutti i tempi.
Se non masticate di jazz, vi starete chiedendo chi sia il Duka. “Ma cu minchia è ‘stu Duka?” se lo chiedono pure gli abitanti di Jato. No, la “k” non è un refuso, si parla di Duke Ellington – compositore, pianista e dio del jazz – che in Sicilia c’è stato per davvero (la sera del 17 luglio 1970) per suonare al Palermo Pop, il primo festival voluto da Joe Napoli che portò sulla scena palermitana i grandi nomi del rock e del jazz. Si alternarono sul prato della Favorita artisti internazionali del calibro di Aretha Franklin, Brian Auger, Johnny Halliday, Tony Scott e, naturalmente, Ellington.
E fin qui, tutto vero. Il bravo Buongiorno si lega a questo episodio e ci racconta che, in contemporanea, nel minuscolo paesino di Jato si celebra la festa di San Calò (il santo negro). Ma l’evento pare destinato ad essere l’ultimo, perché la curia ha deciso di chiudere la chiesa, ormai diroccata, e trasferire il parroco, Don Rocché.
Per salvare santo e paese Ottavio Miranda, improbabile impresario discografico, promette che organizzerà il più grande festino di tutti i tempi con il Duka come ospite d’onore. Inutile dire che il paese viene scosso da un’ondata di entusiasmo e mentre fervono i preparativi conosciamo i personaggi che popolano questo romanzo corale: i fratelli Scotti – che si detestano perché entrambi perché innamorati di Maddalena – Pino impegnato a ingentilire il vino siciliano e Rosario, in arte Roy Scott, musicista e giramondo tornato per la morte del padre che si troverà a tirar su una scalcinata banda jazz; il sindaco Sciortino che come unica preoccupazione ha quella di essere rieletto; Mimì, barbiere pettegolo… Ritmo e colpi di scena vi faranno godere questo romanzo con le note dei pezzi di Duke Ellington, ovvio, del beat italiano e del rock psichedelico. Una vera scoperta!
Un brano
Quando si erano aperte le porte dell’autobus, in pizza era sceso un solo passeggero. Jato era la prima fermata dall’aeroporto, di Palermo, e di soliti i picciotti salivano in tanti per andarsene da lì, e nessuno arrivava. L’autista la fermata doveva farla per forza per rispettare gli orari, scendeva a fumarsi una sigaretta e ripartiva. Ma quando Rosario Scotti mise piede in paese fu come se il tempo si fosse fermato, e tutti si fossero girati a guardare verso di lui nello stesso preciso momento: gessatino nero, occhialino nero e codino. Un beccamorto pareva.
I quattro vecchi che giocavano a carte nel salone del bar si erano sforzati di metterlo a fuoco. Più veloce di loro era stato Mimì il barbiere, testa fine e occhio da lince, che stava facendo una barca e subito aveva commentato con il cliente: – Talè, arrivò Rosario, il figlio della buonanima di Vito Scotti –. Dalle finestre delle case sulla piazza qualche occhio curioso aveva intravisto il forestiero, perché questo era diventato Rosario dopo tutti quegli anni di lontananza: un forestiero a casa sua, uno straniero nel mondo.
Il giovane aveva poggiato per terra la valigia e si era guardato intorno accendendosi una sigaretta: le stesse facciate cadenti delle case, lo stesso intonaco scrostato, le stesse insegne arrugginite, e il muro di cinta che portava alla chiesa, mezzo diroccato. Aveva fatto due boccate e si era infilato nel vicolo sotto gli occhi di tutti.
Il Duka in Sicilia, Vittorio Bongiorno, Einaudi Stile Libero, p. 215 (17 euro)