Kelly Hartford guardò fuori dal finestrino del taxi, esaminando l’orizzonte in cerca di qualche punto di riferimento – un lago, un palazzo bizzarro o un albero particolarmente alto – che potesse confermarle che stavano andando nella direzione giusta. Erano passati dieci anni esatti dall’ultima volta che era andata a trovare la sua amica, e aveva dimenticato quanto fosse fuori il fuori città in cui viveva. A parte un paio di abitazioni rurali nella brughiera, per più di cinquanta chilometri non aveva visto case o macchine. Kelly non capiva come facesse Cassie a resistere, in quel posto.
Dal finestrino entrò un raggio di sole, che la abbagliò per un attimo, e la indusse a rovistare nella borsa in cerca di un paio di occhiali da sole. Un’altra cosa che aveva dimenticato era quanto fossero più lunghi i giorni lassù durante l’estate. Erano quasi le sette di sera di un giorno di tardo agosto, ma dal blu del cielo sembrava mezzogiorno. Solo verso le undici il sole avrebbe fatto un inchino di commiato e sarebbe sparito dietro le colline.
Arrivarono a un bivio in quella strada che sembrava non avere fine, e il taxi girò a sinistra. Kelly si stirò i pollici come le aveva insegnato il fisioterapista, e poi ricominciò a digitare freneticamente sul telefono. Non a lungo, però: la macchina prese una strada sterrata e dovette aggrapparsi al poggiatesta per mantenersi dritta. «Gesù», brontolò, mentre le sospensioni imbizzarrite la sballottavano di qua e di là. «Forse un cammello sarebbe stato più comodo».
Il tassista, arcigno, non rispose, ma lei sapeva che quel colabrodo di strada di campagna era il punto di riferimento che stava cercando. Più avanti si intravedevano le aquile in cima alle colonne e la casetta del custode, a segnare il perimetro della tenuta e la fine del suo lungo viaggio. Essendo arrivata a Edimburgo dopo aver fatto scalo a Heathrow, viaggiava da un giorno intero, e aveva disperatamente bisogno di una doccia e di un bel riposino prima di entrare nel vivo dei festeggiamenti. Sapeva benissimo che ce l’avrebbe fatta anche prendendo il volo successivo. Se fosse passata per Newark, sarebbe atterrata tre ore prima e avrebbe avuto tutto il pomeriggio per riposarsi ed essere pronta insieme agli altri, ma chi voleva prendere in giro? Per le ragazze come lei JFK era l’unico aeroporto, e in ogni caso Bebe stava impazzendo per mettere insieme la collezione: le stava per venire un colpo quando Kelly aveva insistito per lasciare il lavoro per presenziare a una festa in Scozia. Erano le ultime due settimane disponibili per terminare le collezioni, e rimanere a disposizione fino alla fine, portare con sé solo il bagaglio a mano e aspettare fino all’ultimo minuto per imbarcarsi era stato il minimo che avesse potuto fare.
Un diamante da Tiffany, Karen Swan, traduzione di Rossella Visconti, Newton Compton, p. 509 (9,90 euro)
4 comments
il libro è piuttosto piacevole, magari un po’ lento in certi punti… non sono ancora arrivata a metà e, forse per la troppa emotività di questo periodo della mia vita, ho pianto già tre volte.. una delle quali per la traduzione.. mi chiedo hanno abolito il congiuntivo e non mi hanno informato della cosa?????
La notizia la danno spesso ai telegiornali. Non ne azzeccano uno…! Con la scusa del “parlato” si fanno non pochi danni. Ma la storia è carina e no, la ragazza non è Virginia
Woolf 😉
Trovo la traduzione a dir poco allucinante. Modi di dire inglesi tradotti letteralmente in Italiano. Un “Now you can swear” tradotto “Adesso lo puoi giurare” quando in realtà vuol dire “adesso sai dire le parolacce”. Purtroppo gli esempi del genere ne libro fioccano. Questa traduttrice è incompetente.
Grande problema, la traduzione.
Se puoi, posta l’intera frase incriminata, così che si colga bene il senso generale. Direi che potrebbe essere utile per tutti quelli interessati a questo mestiere.
Ciao, Barbara
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